martedì, novembre 10, 2020

Il mostro e le bambine: quando Marsala conobbe l’orrore

L’illustrazione in copertina di Fabio Ramiro Rossin
per il libro sulla bambine di Marsala edito da Zolfo

di SALVATORE FALZONE
Tra le "terribili istorie" di casa nostra, quella delle bambine di Marsala è forse la più terribile. Alle due del pomeriggio del 21 ottobre 1971 Antonella, Ninfa e Virginia scompaiono nel breve tragitto fra scuola e casa. Antonella Valenti: nove anni, capelli biondi corti e ricci, vestito rosso. Ninfa Marchese: sette anni, robusta, scamiciato a righe scozzese, ciabatte consumate. Sua sorella Virginia: cinque anni, mingherlina, castana, camicia celeste, sandali. Sono figlie di povera gente, cresciute nello squallore edilizio delle case popolari Ina.
Dove sono finite?
Tremila uomini, tra militari e volontari, battono ogni angolo delle centosessantaquattro contrade della città: quieta e viziosa, dai tetti bassi e dal mare incatramato, tutta cave di tufo abbandonate e motoscafi, opulente cantine di vino e saline sfolgoranti. Le indagini sono coordinate da un giudice d’eccezione, campione di bridge e amante dei gatti: Cesare Terranova, da quattro mesi procuratore di Marsala. «Sono preoccupato - dice subito il magistrato ai giornalisti penso al peggio».

E il peggio arriva cinque giorni dopo, quando un idraulico intento a svuotare la propria vescica scorge il cadavere di una bambina tra le mura rimaste a metà di una scuola rurale. È Antonella, seviziata e bruciata. La bocca, le gambe e le braccia sono legate dalle strisce di un nastro adesivo marrone che porterà gli inquirenti sulle tracce del colpevole: impiegato alle Industrie Riunite Cartotecnica, unica azienda dell’Italia del sud a usare un nastro del genere per chiudere gli imballaggi. È lo zio della piccola, Michele Vinci, ormai per tutti semplicemente "il mostro".

«Io fui», confessa. «Non la volevo uccidere, Antonella. La volevo tutta ppi mmia» . E Ninfa? E Virginia? Gettate in un pozzo. I vigili del fuoco le ritroveranno coi volti quasi putrefatti, ma ancora abbracciate. Le loro unghiate sulle pareti viscide della fossa è solo uno dei particolari strazianti di questo triplice delitto che sconvolse l’Italia intera («il più mostruoso del secolo» , secondo un giornale francese), oggi ricostruito da Antonio Pagliaro nel libro intitolato "Storia terribile delle bambine di Marsala" (Zolfo).

Fisico palermitano, Pagliaro ha studiato gli atti giudiziari, raccolto le testimonianze orali, riletto le cronache dei quotidiani dell’epoca. Ha intrecciato sapientemente il fattaccio di Marsala con la storia del Paese. E ha costruito un’inchiesta narrativa avvincente e dettagliatissima, offrendo al lettore persino una mappa della città, con relativa legenda, e un elenco dei protagonisti (il caso ha voluto che, Terranova a parte, altri cadaveri eccellenti facciano capolino tra lo svolgersi degli eventi: Ciaccio Montalto, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Lenin Mancuso, Paolo Borsellino).

Ma chi è " il mostro"? Un debole con poco cervello, figlio di un pescatore alcolizzato e di una casalinga. Alto un metro e sessantacinque, magro ma muscoloso (prima di entrare in fabbrica trasportava bombole a gas). Gli piace cantare: è un fanatico di Claudio Villa. Gli piace camminare all’indietro e riacciuffare al volo pesanti secchi lanciati in aria: piccole manie da "scimunitu". Gli piace andare dal barbiere: capelli lisci, riga a sinistra. Gli piace la tv: "Rischiatutto" e "Canzonissima". E gli piace Antonella: purtroppo per lei (e purtroppo per lui).

Vincenzo Consolo, inviato dal quotidiano " L’Ora" a seguire il dibattimento, scrive però che in ogni processo «la lotta è far coincidere la realtà con la verità» e che «mai la realtà è apparsa come a Marsala così velata, distorta, occulta, insondabile». In effetti, tra dubbi procedurali e di coscienza, drammatiche confessioni e ritrattazioni, contrasti di perizie, nuovi arresti e colpi di scena, il caso «rivelerà per sempre l’amaro in bocca che lascia la giustizia, il suo destino di mezze verità, l’aridità delle sue compensazioni» , come si legge nella bella prefazione di Pietro Melati intitolata "Un teatro di crudeltà".

La prima sentenza arriva dopo cinque ore di camera di consiglio, quattro anni di indagini e settemila pagine di atti. Ma i tormenti del pubblico ministero Ciaccio Montalto, dichiarati in aula, lasciano una "macchia" – scrive ancora Melati – sulle carte dei giudici: il mostro ha agito da solo? Appello, dunque. E Cassazione. Di nuovo appello… La narrazione di Pagliaro procede leggera e sobria, talvolta ironica, ma sempre densa di rispetto umano. «La storia è così atroce e semplice – scrive - che ancora oggi nessuno vuole crederci, dev’esserci altro, un’altra spiegazione. La mafia stragista, una banda di criminali senza scrupoli, le più terribili droghe, le orge sataniche, un complotto dei poteri forti. Dev’esserci un’altra spiegazione. Devono esserci da qualche parte i potenti e gli impuniti, quelli che lo dissero e lo fecero. Non può esistere un mostro così. E invece sì».

Nel tempo si registrano strani episodi, persino il pestaggio in strada di un avvocato. Passano 17 anni e cala il silenzio, improvvisamente rotto dallo squillo del "Telefono giallo" di Augias: forse c’è un collegamento tra la fine delle bambine e il progetto di sequestro dell’onorevole trapanese Grillo. Si torna a parlare anche del rapimento di Luigi Corleo, capostipite dell’impero esattoriale dei cugini Salvo. L’allora procuratore di Marsala Paolo Borsellino riapre le indagini. Ma le indagini hanno vita breve: nessun riscontro, Vinci resta in carcere. Tornerà libero nel 2002.

«Ha sessant’anni – conclude Pagliaro - esce dal penitenziario di Viterbo e rimane a vivere nella Tuscia. Ha una fidanzata. Di mestiere fa il giostraio».

La Repubblica Palermo, 10 novembre 2020

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