sabato, novembre 28, 2020

"Da li tenebri a la luci...", un poema per riscoprire l’anima di una comunità

di SANTO LOMBINO
«Espressione degli strati più umili della popolazione, la religione popolare, pur avendo caratteri propri, che la distinguono dalla religione colta, mantiene con questa rapporti di interdipendenza e contiguità. La prima riduce a dimensioni più domestiche e familiari il senso religioso, ma trae quasi sempre forme e contenuti dal patrimonio rituale e dottrinario della religione ufficiale»[1]. Così scriveva alcuni anni or sono Giuseppe Governali, studioso ed educatore di grande spessore culturale ed umano, docente e preside del Liceo “G. Colletto” di Corleone, scomparso qualche anno fa. A questa concezione si può fare riferimento leggendo il poema in versi Da li tenebri a la luci e da Eva a Maria con sottotitolo Poemettu sacru in XV canti chi cumpendianu li misterii di lu s. Rusariu di Biagio Palazzo da Corleone, stampato a Palermo nel 1916 presso la tipografia Giliberti in via Celso, tipografia chiusa dopo la seconda guerra mondiale[2]. L’opera è stata nel marzo 2020 pubblicata in ristampa anastatica dalla tipografia Cortimiglia a cura della casa editrice Palladium di Corleone, nella collana “Ragnatele culturali. I protagonisti della narrativa” diretta da Patrizia Virgadamo, con ampia e acuta prefazione di Giovanni Perrino.

Quest’ultimo fa conoscere al lettore le difficoltà incontrate nell’individuare l’autore del volume, dato che l’anagrafe della cittadina di Corleone registra più persone dello stesso nome e dello stesso cognome, che di lui non c’è cenno alcuno nelle opere storiografiche che ricostruiscono la vicenda storico-culturale di quel comune, e che allo stesso nome non viene associata nel tempo alcun’altra opera letteraria. A conclusione di un lungo percorso, pare che si possa attribuire l’opera a un Biagio Palazzo nato nel 1847.

La pubblicazione è frutto della meritoria scelta compiuta da un collettivo di studiosi che ha deciso di portare a conoscenza del più vasto pubblico l’opera in versi ritrovata nella biblioteca di Giuseppe Virgadamo, figura di studioso di grande caratura, definito «uomo di scuola, amante della lettura e appassionato bibliofilo».

«L’intento che ci ha mosso – scrive Giovanni Perrino, poeta, docente, operatore culturale da anni ambientato in Lombardia – non è stata l’operazione di salvataggio in sé, quanto quello di fare qualcosa per noi, cittadini di un luogo importante e ricco di storia. L’abbiamo fatto nel segno della cittadinanza attiva, ma anche nella condivisione che troppo spesso la sofferenza è storia non raccontata e dare parole al passato è un modo per curare il presente, il nostro presente» [3].

«Il lavoro di Palazzo – continua Perrino – appare prezioso per tre buone ragioni: il codice linguistico usato che è la parlata spontanea e popolare del territorio ancor oggi largamente usata, l’uso della quartina e dell’endecasillabo, codificato dalla metrica classica italiana, che denota una stupefacente conoscenza della tecnica compositiva e infine l’approccio religioso da cui emerge una profonda conoscenza dei testi sacri mai disgiunta da un preciso intento pedagogico»[4].

Caratteristica fondamentale del poemetto, composto di 2.800 endecasillabi e 700 quartine è infatti la scrittura in quel dialetto dell’entroterra siciliano che viene ancora oggi parlato a Corleone e dintorni, con lessico e forme espressive diverse da quello che si parlava e si parla nel capoluogo dell’Isola, distante 60 chilometri. È molto probabile che gli ambienti ecclesiastici e intellettuali dell’epoca in cui il libro è uscito dessero scarsa importanza al poema in quanto il dialetto godeva allora di limitata considerazione quando non di vero e proprio disprezzo, mentre in epoca recente, anche grazie alla grande lezione di Ignazio Buttitta, di altri poeti e di  linguisti di alta levatura, è venuta meno la discriminazione verso le parlate dialettali, ormai valorizzate in quanto “lingue materne”, genuina maniera di esprimersi dei ceti popolari, meritevoli di studio e di attenzione come la lingua nazionale. L’autore non ignora che la maggioranza dei suoi lettori faceva sicuramente uso del siciliano nella comunicazione quotidiana: adottandone il “volgare eloquio” vuole probabilmente che la storia narrata venisse da loro sentita come qualcosa che li riguarda da vicino e non una serie di eventi lontani nel tempo e nello spazio. «Biagio Palazzo intuisce – annota ancora Perrino –, come poi avrebbe scritto Pasolini, che, prima ancora che lingua di comunicazione, il dialetto è un mezzo di costruzione della coscienza identitaria, ciò che consente il contatto con il reale in modo binario, sia attraverso la ragione sia attraverso l’istintualità della lingua materna. Il dialetto è un tramite essenziale col mondo, il solo che consente la nominazione degli oggetti e la percezione di questi in quanto reali».

Contraddicendo questa preferenza per la scrittura in siciliano, la sintetica dedica dell’autore è titolata “Lettore mio”[5] ed è scritta in italiano. In essa Palazzo esprime senza incertezze la sua poetica e spiega apertis verbis il suo obiettivo fondamentale. Scrive infatti: «il genio mi spinse ad alta musa e mi spinse tanto in alto senza che io me ne accorgessi. Ardito fu il passo, lo confesso, ma chi può opporsi mai all’impulso del cuore?». Questa energia endogena lo ha quindi spinto quasi a sua insaputa verso mete altissime e inattese, portandolo dove non si aspettava di arrivare. Sembra di leggere «I’ mi son un che quando amor mi spira noto…»[6] che Dante rivolge a Bonagiunta Orbicciani per definire la sua nuova maniera di fare poesia. Il nostro autore dichiara apertamente qual è lo scopo della sua fatica: «cantare le meraviglie dell’Onnipotente al fine che gli altri facciano coro, siimi indulgente e seguimi perché soltanto questo è l’intento mio: magnificare Iddio». Dunque la ricerca stilistica, la cura per scrivere versi seguendo le regole in modo ineccepibile, l’invenzione di rime e assonanze, l’unione tra cuore e ragione nell’impegno letterario non comune, tutto è finalizzato a questo “magnificat”.

L’autore, rifacendosi al racconto biblico, ripercorre le tappe principali della Genesi, della storia del popolo eletto dall’età Abramo (che riceve l’ordine di uccidere il figlio Isacco) alla cattività in terra egiziana, alla fuga dall’Egitto e all’arrivo nella terra promessa:

Cu lu passaggiu di lu mari Russo

ci persinu lu chiummu e lu cumpassu

chi Farauni si stuiau lu mussu

chi dda truvau lu veru malupassu.

Si faccia attenzione alle due espressioni contenute in questa quartina a rima alternata, a stretto giro di versi: prima, il modo di dire “perdiri lu chiummu e lu cumpassu”, perdere il filo a piombo e il compasso, metafora di grande effetto che fa riferimento esplicito agli strumenti di lavoro di un capomastro o un geometra, usata per indicare la gravissima perdita di elementi decisivi nella vita economica e sociale dell’Antico Egitto con la partenza del popolo ebraico. La seconda, quella che si riferisce a “stuiarisi lu mussu”, pulirsi il muso, utilizzata nel linguaggio popolare per indicare la rinuncia definitiva e irreversibile a qualcosa di cui si stava usufruendo o godendo. Inoltre il titolo onorifico Faraone, come avviene nei racconti dei ceti popolari, viene trasformato in nome proprio.

Palazzo passa poi dal Vecchio al Nuovo Testamento, scandendo la biografia di Cristo e tenendo costantemente presenti le vicende contrassegnate dalla definizione di misteri dolorosi, gaudiosi, gloriosi contenuti nella recitazione del Rosario, formula devozionale quanto mai presente nelle tradizioni religiose popolari. Per fare un esempio:

Subitu vinni Cristu flagillatu

cu tanti vastunati fu battutu

pi sbrigugnallu nudu fu spugghiatu

e iddu si sucava e stava mutu.

In cui è facile notare il ricorso a un topos comune della cultura popolare, ovvero la stigmatizzazione della nudità come vergogna e alla sottolineatura del comportamento paradossale di Cristo che anziché lamentarsi piangere e chiedere la fine delle torture, non proferisce parola ma “si suca”. «Sucarisi – definisce Antonino Traina nel suo vocabolario licenziato nel 1868 – quel tirare che si fa col fiato a sé, ristringendosi in se stesso, quando o per colpo o per altro si sente grave dolore, traducibile in succiare». La quartina richiama, oltre al dettato evangelico[7], un passo del più recente Il Vangelo secondo Pilato di Schmitt[8] che narra dal punto di vista del governatore romano quanto avvenne in Palestina tra l’arresto e la crocifissione di Gesù. In questo volume dalla forma epistolare, Pilato così commenta l’atteggiamento di Cristo: «Mai quel mago aveva fatto uno di quei gesti capaci di stimolare la clemenza: non davanti ai sacerdoti, non davanti a me e neppure al cospetto della folla. La sua rigidità, il suo rifiuto del patetico, le sue risposte nette l’avevano sospinto irrevocabilmente verso il trapasso».

Non si tratta quindi, come si vede da questi esempi, di una semplice traduzione in siciliano dei passi più famosi del Vecchio e del Nuovo Testamento, ma della abile rielaborazione poetica di una vicenda che si segue senza perdere una tappa, facendo partecipare il lettore e richiamandosi alla sua esperienza umana, religiosa e linguistica. L’autore afferma spesso “comu tutti già sapiti”, “comu si leggi ntra li sagri carti”: egli è pienamente coscienze del fatto che gli episodi narrati sono stati già visitati mille volte nelle omelie, al catechismo e nelle sacre rappresentazioni dei mortori della Settimana santa, come il popolarissimo Riscatto di Adamo in versi di Filippo Orioles[9], ma vuol far toccare con mano la sua abilità – che non diventa mai virtuosismo fine a se stesso – nel tradurre queste vicende in fatti ed espressioni radicati nel sentire popolare.

Concludiamo attribuendo al “poemettu sacru” di Biagio Palazzo una seconda citazione di Giuseppe Governali: «La presente raccolta ha il merito di fare memoria e di salvare un patrimonio di cultura destinato altrimenti all’oblio. Raccogliere e conservare quanto del passato rimane e lambisce ancora con qualche segno il presente significa, infatti, non tanto custodire la memoria di un caro estinto (cosa in sé meritoria), quanto riprendere un colloquio bruscamente interrotto, nel tentativo di riappropriarsi di passate, sopite speranze ed evitare che il passato sopravviva come distruzione del passato»[10].

Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020

 

Note

[1] G. Governali, Prefazione a Raccolta di preghiere, a cura di Piera Bivona, inedito.
[2] È quanto mai strana la coincidenza col fatto che proprio in quella strada sul finire degli anni 1970, Francesco Carbone, intellettuale poliedrico di grande levatura, abbia notato presso una abitazione privata ed acquistato un ciclostile utilizzato in provincia di Palermo per stampare l’“aperiodico” intitolato «Busambra. Ricerca interculturale», il cui raggio di azione comprendeva anche Corleone.
[3] G. Perrino, Nota introduttiva al poemetto sacro, p. 9.
[4] Ivi, p. 11.
[5] Da li tenebri a la luci e da Eva a Maria, p. 24.
[6] Purgatorio, XXIV, 52-54.
[7] Matteo, 26,63; Luca, 23,9. Marco, 14,61.
[8] É.-E. Schmitt, Il Vangelo secondo Pilato, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2002.[9] Cfr. Il riscatto d’Adamo nella morte di Gesù Cristo, edizione critica a cura di S. Bancheri, Marra, Cosenza 1995. L’opera in versi del 1750 veniva recitata il venerdì santo in molte piazze della Sicilia. A partire dagli anni ’60 del Novecento ne venivano tratte anche versioni in prosa, data la difficoltà, per gli attori popolari, di mandare a memoria versi con un linguaggio aulico del Seicento. Si veda la recensione di S. Di Maria pubblicata in «MLN», Johns Hopkins University Press, vol. 112, 1 (January 1997), pp. 124-125.
[10] G. Governali, op. cit. 

Santo Lombino, ha insegnato lettere nella scuola media e storia e filosofia nei licei statali, si occupa di scritture autobiografiche, storia e letteratura dell’emigrazione, didattica della storia. Ha presentato al “Premio Pieve-Banca Toscana” Tommaso Bordonaro, autore de La spartenza, ha curato la pubblicazione di memorie e diari di autori popolari. Ha scritto I tempi del luogo (1986); Cercare un altro mondo. L’emigrazione bolognettese e la S. Anthony Society di Garfield (2002); Una lunga passione civile (con G. Nalli, 2004); Cinque generazioni. 1882-2007, il cammino di una comunità (2007). Tra le ultime pubblicazioni: Il grano, l’ulivo e l’ogliastro (2015) e Un paese al crocevia. Storia di Bolognetta (2016). Ha curato recentemente il volume Tutti dicono Spartenza. Scritti su Tommaso Bordonaro (2019). È direttore scientifico del Museo delle Spartenze dell’Area di Rocca Busambra.

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