domenica, novembre 15, 2020

CURIOSITA' STORICHE. “Ma cos’è il 𝐒𝐨𝐜𝐜𝐨𝐫𝐬𝐨 𝐌𝐨𝐫𝐭𝐨”?

I carusi delle zolfare siciliane

Una delle domande che più spesso mi viene fatta al 𝐌𝐮𝐬𝐞𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐙𝐨𝐥𝐟𝐚𝐫𝐚 𝐝𝐢 𝐌𝐨𝐧𝐭𝐞𝐝𝐨𝐫𝐨 (𝐂𝐋) è “Ma cos’è il 𝐒𝐨𝐜𝐜𝐨𝐫𝐬𝐨 𝐌𝐨𝐫𝐭𝐨”? A questa domanda ho sentito dare varie risposte. Era un prestito? una anticipazione? Non esattamente. Facciamo un po' di chiarezza.
Una squadra di lavoro nelle zolfare era di solito costituita da un picconiere e quattro “carusi” che erano addetti a portare fuori dalla miniera il materiale cavato dal picconiere. Per potere “assumere” i carusi, il picconiere doveva versare alla famiglia di appartenenza una quota in denaro definita “soccorso morto”. Con una moderna terminologia potremmo dire che il "soccorso morto" era una polizza fideiussoria che il picconiere versava anticipatamente a titolo precauzionale, in caso di morte del "caruso" ma che doveva essere interamente restituita per risolvere il contratto di lavoro in assenza dell’evento morte.

Non era dunque un prestito neanche un'anticipazione sul salario, infatti il caruso veniva pagato settimanalmente fin da subito (pochi spiccioli si dirà, condivido, ma questo era il salario a quei tempi per quel tipo di lavoro).

Il soccorso morto era quindi un aiuto economico (soccorso) che il picconiere dava in caso di morte del caruso perché il suo decesso non avrebbe più consentito alla famiglia di avere una entrata economica.

Il versamento della quota "soccorso morto" alla famiglia da parte del picconiere escludeva quest’ultimo da ogni responsabilità penale nel caso di morte da lavoro.

 

Una delle condizioni fondamentali per rescindere il contratto tra il caruso e il picconiere era quella di restituire l'intera somma del soccorso morto. E questo era il vero problema. Infatti le famiglie che avevano ceduto il loro minore al picconiere, solitamente spendevano rapidamente la somma del soccorso morto per sfamare il resto della famiglia e non erano più in grado di restituire la somma per cui il caruso rimaneva nelle mani del picconiere.

A volte erano i carusi stessi che, conservando, settimana dopo settimana, parte della loro paga, riuscivano a restituire la somma; a volte era il picconiere stesso che, per pena o altro, lasciava libero il caruso, magari ormai adulto, anche senza aver incassato la somma originaria.

Più spesso in realtà i picconieri mantenevano con se il caruso anche in età più avanzata e, se non ne avevano più bisogno, lo cedevano ad altri picconieri a fronte di una corresponsione di una somma più o meno simile a quella del soccorso morto.

 

Questo spiega perché non si conosce più neanche il nome di molti carusi, come ad esempio dei 9 sepolti nel “Cimitero dei Carusi” presso la zolfara di #Gessolungo a Caltanissetta, perché a seguito di svariati spostamenti e passaggi di mano se ne perdeva pure la loro origine e le famiglie che vivevano in assoluta povertà non erano più capaci di ricercarne l'esistenza.

 

Il soccorso morto non determinava di fatto una schiavitù del caruso nei confronti del suo datore di lavoro però la rozzezza dei picconieri, che trascorrevano l’intera vita in un ambiente brutale e disumano, generava, un rapporto dispotico che era del tutto simile a quello del padrone-schiavo e che sfociava spesso in manifestazioni violente e bestiali.

E’ evidente che lo sfruttamento del lavoro dei minori già in tenera età fu una piaga che rubò l'infanzia a moltissimi bambini tra l’Ottocento e il Novecento. Anche se l’età minima per avviare un minore al lavoro a quell’epoca, era di 12 anni, molto spesso tale limite era considerato un vincolo che non rispettavano proprio i genitori dei carusi stessi, per cui i rappresentanti del regno borbonico, prima, e d’Italia poi, non controllavano tale diffusa illegalità dalla quale anzi si tenevano ben lontani.

 

Una curiosità:

Molte famiglie, dopo aver speso il denaro del soccorso morto per esigenze a volte immediate e urgenti, iniziavano a raccogliere giorno dopo giorno il denaro necessario a ricostruire la somma del soccorso morto. La somma veniva posta all’interno di un salvadanaio di terracotta che veniva spaccato al momento dell’apertura. Non a caso il salvadanaio era chiamato “Caruseddu”.

 

by 𝐌𝐚𝐫𝐜𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐅𝐫��𝐧𝐠𝐢𝐚𝐦𝐨𝐧𝐞

Direttore del 𝐌𝐮𝐬𝐞𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐙𝐨𝐥𝐟𝐚𝐫𝐚 𝐝𝐢 𝐌𝐨𝐧𝐭𝐞𝐝𝐨𝐫𝐨 (𝐂𝐋)

 

1 commento:

Nino Gennusa ha detto...

A Corleone si viveva qualcosa di simile. Presso la cava di cicio negli anni sessanta un mio cugino di età adolescenziale resto schiacciato dalle pietre dopo una esplosione provocata dalla dinamite. Era un Caruso lavoratore di nome Pecoraro