martedì, settembre 17, 2019

L’INTERVISTA. Renzi: "Lascio il Pd e sarà un bene per tutti. Anche per Conte"


di ANNALISA CUZZOCREA
ROMA — Nemici mai, giura Matteo Renzi. Ma l’ex premier ed ex segretario lascia il Pd. Non ascolta gli appelli di Zingaretti, non crede a un’unità che considera di facciata. «Voglio passare i prossimi mesi a combattere contro Salvini», dice a Repubblica. E spiega le ragioni di una scelta destinata a cambiare tutto.
Ha davvero deciso lo strappo?
«I gruppi autonomi nasceranno già questa settimana. E saranno un bene per tutti: Zingaretti non avrà più l’alibi di dire che non controlla i gruppi pd perché saranno "derenzizzati". E per il governo probabilmente si allargherà la base del consenso parlamentare, l’ho detto anche a Conte. Dunque l’operazione è un bene per tutti, come osservato da Goffredo Bettini. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Il ragionamento è più ampio e sarà nel Paese, non solo nei palazzi».

Cosa non ha ottenuto dalla nascita del nuovo governo che giustifichi l’addio?
«Non è questo il punto. Se penso a come erano rappresentate le istituzioni un mese fa dico che il Conte bis è un miracolo. Aver mandato a casa Salvini resterà nel mio curriculum come una delle cose di cui vado più fiero».
Anche se per farlo il Pd non è passato dal voto?
«Si chiama democrazia parlamentare! Il leader della Lega usava il Viminale per educare all’odio. Quando, in evidente stato di sovraeccitazione, chiede pieni poteri, può accadere qualsiasi cosa: l’uscita dall’euro, la nomina dei suoi amici che chiedono tangenti ai russi alla guida di Eni. La recessione che avrebbe seguito la campagna di promesse e fake news non avrebbe solo fatto aumentare Iva e spread: avrebbe messo in ginocchio le imprese».
Adesso però lei spacca il Pd indebolendo proprio il fronte anti-Salvini. Che senso ha?
«È il contrario. Abbiamo fatto un capolavoro tattico mettendo in minoranza Salvini con gli strumenti della democrazia parlamentare. Ma il populismo cattivo che esprime non è battuto e va sconfitto nella società. E credo che le liturgie di un Pd organizzato scientificamente in correnti e impegnato in una faticosa e autoreferenziale ricerca dell’unità come bene supremo non funzionino più».
L’unità è una richiesta che viene soprattutto dalla base. Zingaretti ha fatto di tutto per mantenerla. Cos’è che gli rimprovera?
«Non ho un problema personale con Zingaretti, né lui ha un problema con me. Abbiamo sempre discusso e abbiamo sempre mantenuto toni di civiltà personali. Qui c’è un fatto politico. Il Pd nasce come grande intuizione di un partito all’americana capace di riconoscersi in un leader carismatico e fondato sulle primarie. Chi ha tentato di interpretare questo ruolo è stato sconfitto dal fuoco amico. Oggi il Pd è un insieme di correnti. E temo che non sarà in grado da solo di rispondere alle aggressioni di Salvini e alla difficile convivenza con i 5 Stelle».
Rischia di passare alla storia come colui che ha ucciso il partito che aveva l’ambizione di unire la tradizione socialdemocratica e quella cattolica, i Ds e la Margherita. Lo sa?
«Ma dai! Sono cinque anni che mi dite che rovino il Pd. Basta con questa tiritera sul passato. C’è un futuro ricco di difficoltà, ma bellissimo, là fuori. Lo andiamo a prendere? Lo costruiamo? O ci limitiamo ad aspettarlo rinchiusi nelle nostre correntine? Diciamo la verità: c’è una corrente culturale nella sinistra italiana per la quale io sono l’intruso».
Perché ha spostato a destra il Partito democratico?
«Ho portato il Pd al massimo mai raggiunto: 41%. Ho garantito anni di governo che hanno portato le unioni civili, il dopo di noi, le leggi sul sociale e sulla cooperazione internazionale. Abbiamo fatto un incredibile piano per le aziende. Finalmente si è iniziato una lotta all’evasione fiscale seria. Il Pil era negativo e lo abbiamo portato in terreno positivo. Chi guadagna poco ha almeno gli 80 euro, su cui tutti fanno ironie ma che nessuno tocca. Quando sono arrivato c’erano 20 milioni di euro sulla povertà, quando sono andato via 2,7 miliardi, e altri 2 sulle periferie. C’è più sinistra in questo elenco che in anni di rivendicazioni e convegni della ditta».
Quello che rivendica lo ha fatto grazie anche alla famiglia politica che ha guidato.
«Lo abbiamo fatto insieme. Sarebbe facile far polemica oggi. Il primo gesto del nuovo Pd è stato mettere alle riforme un deputato che ha votato No al referendum e al lavoro un dirigente contrario al Jobs Act. Ma non è questo che mi fa uscire. Mi fa uscire la mancanza di una visione sul futuro».
Sembra una vendetta.
«Ho votato la fiducia persino al governo coi grillini, figuriamoci se mi preoccupano i risentimenti o le vendette. Mi hanno sempre trattato come un estraneo, come un abusivo, anche quando ho vinto le primarie. Ancora oggi c’è una corrente culturale che paragona i due Matteo mettendoli sullo stesso piano. È il riflesso condizionato di quella sinistra che si autoproclama tale e che non accetta di essere guidata da uno che non provenga dalla Ditta. Del resto il contrappasso è semplice: io esco, nei prossimi mesi rientrano D’Alema, Bersani e Speranza. Va via un ex premier, ne torna un altro. Tutto si tiene».
Parla di fuoco amico, ma ammesso e non concesso che Bersani, Epifani, D’Alema siano usciti dal Pd per farle la guerra, lei non sta facendo lo stesso? Non sta tradendo la fiducia di chi ha votato il Pd anche per le sue idee?
«Scriverò una lettera aperta agli elettori dem, ma non accetto lezioni da chi ha votato altre liste alle ultime elezioni. Con il nuovo governo e con la fase nuova che si apre, per lo più in un sistema proporzionale, è evidente che non puoi passare la giornata a discutere al tuo interno se vuoi battere il populismo nel Paese».
Quindi è d’accordo con il ritorno al proporzionale?
«No. Ma lo rispetterò se è parte dell’accordo di governo. Sogno che Zingaretti e Di Maio si sveglino un giorno proponendo il monocameralismo, il doppio turno, un sistema in cui la sera sai chi ha vinto le elezioni. Non cambio idea».
È quello che vuole Salvini.
«Non conta, se è giusto. Ma so che c’è un patto tra Pd e 5 stelle sulla legge elettorale e non sarò io a violarlo o a votare contro. Voglio passare i prossimi mesi a combattere il salvinismo nelle piazze, nelle scuole, nelle fabbriche. Faremo comitati ovunque. Non posso farlo se tutte le mattine devo difendermi da chi mi aggredisce in casa mia».
Suona come un agguato: ha fatto partire il governo, ora si stacca per avere una quota di maggioranza decisiva?
«Sarebbe stato un agguato se lo avessi fatto tra sei mesi. Farlo il giorno del giuramento significa partire con chiarezza, stabilizzarlo. Non chiedo nulla. A Zingaretti lasciamo la maggioranza dei parlamentari. Mi avrebbe fatto comodo godere della rendita di queste ultime settimane per avere un potere d’interdizione nel Pd. Ma bisogna dire, non interdire. Fare, non bloccare. Proporre, non contrattare. E io credo che ci sia uno spazio per una cosa nuova. Che non è di centro o di sinistra, ma che occupa lo spazio meno utilizzato dalla politica italiana: lo spazio del futuro».
Lo chiama futuro per non prendere posizione? E prepararsi a raccogliere pezzi di Forza Italia?
«Non è così. Mentre noi litighiamo sul nulla, sta cambiando il mondo. L’intelligenza artificiale rivoluziona le aziende, la quotidianità, la vita nelle città: il populismo non conosce l’intelligenza artificiale, il populismo è stupidita naturale. Noi possiamo fare dell’Italia un laboratorio di innovazione spaventoso, mantenendo i valori di umanità e di umanesimo che abbiamo nel dna. Ecco perché era fondamentale difendere le povere vite prese in ostaggio da Salvini sui barconi».
Quanti verranno con lei?
«I parlamentari saranno trenta, più o meno. Non dico che c’è un numero chiuso, ma quasi. La vera sfida saranno le migliaia di persone che sul territorio faranno qualcosa di nuovo e di grande. E la Leopolda sarà un’esplosione di proposte. Ci riconoscerete dal sorriso, non dal rancore. Voi la chiamate scissione, io la chiamo novità. E non mi sentirete mai parlare male di Zingaretti o Orlando o Franceschini: a loro mando un abbraccio e auguro buon lavoro. Quando una storia finisce, finisce. Restiamo amici, se vi va. Ma anche se non vi va, per noi non sarete mai nemici».
Tiene dentro ai gruppi pd uomini ancora suoi per esercitare un doppio potere?
«Il potere, il diritto di parola sulle nomine, sono sciocchezze. Io le nomine le ho fatte quando ero premier. Ad esempio se Enel viaggia così forte è perché abbiamo scelto un board e un CEO straordinari. Non sono interessato a mettere il naso nelle nomine, ma voglio dire la mia sulla strategia. Perché continuiamo a tenere divise Leonardo- Finmeccanica e Fincantieri? Che senso ha? Non rischiamo di farci mangiare da partner europei che investono più di noi sullo spazio e sulla difesa?».
Letta a Radio Capital ha detto: «Non posso credere che Renzi vada via perché non c’è un sottosegretario di Pontassieve».
«Per rispetto della sua intelligenza non commento una simile idiozia».
Quand’è che ha deciso?
«Quando ho visto i ragazzi della scuola di formazione "Meritare l’Italia". Sono bellissimi i giovani che si avvicinano alla politica. Ho preso lo stipendio di agosto da senatore e d’accordo con mia moglie l’ho destinato alla scuola. Mi interessa costruire una Casa dove i millennials possano fare la differenza. E se questo mi costringe a ripartire da zero, lo faccio col sorriso. Riparto con lo zaino per una strada meno battuta: parlando con la gente non coi gruppi dirigenti».
Come si chiama il nuovo partito?
«Il nome non glielo dico, ma non sarà un partito tradizionale, sarà una casa. E sarà femminista con molte donne di livello alla guida. Teresa Bellanova sarà la capo delegazione nel governo. Una leader politica, oltre che una ministra. Per me le donne non sono figurine e l’ho sempre dimostrato. In ogni provincia a coordinare saranno un uomo e una donna: la diarchia è fondamentale per incoraggiare la presenza femminile».
Appoggerà le intese Pd-M5S alle regionali?
«A me l’alleanza strategica con Di Maio non convince. Non ho fatto tutto questo lavoro per morire socio di Rousseau. Per me la politica è un’altra cosa rispetto all’algoritmo di Casaleggio. Ma non voglio disturbare il Pd. La nostra Casa non si candiderà né alle regionali né alle comunali almeno per un anno. Chi vorrà impegnarsi lo farà con liste civiche o da indipendente. La prima elezione cui ci presenteremo saranno le politiche, sperando che siano nel 2023. E poi le Europee del 2024. Abbiamo tempo e fiato».
Puntando a quale obiettivo? Non teme che le sue idee, andando altrove, rischino di sparire?
«Il mio amico Franceschini me lo ha scritto ieri sera via sms. Uscirai dal Pd e non ti considererà più nessuno. Può darsi. Mi piace da impazzire quando mi dicono che sono morto. L’ultimo che lo h pensato si sta ancora leccando le ferite. Faceva il ministro dell’Interno. Adesso lui è tornato al Papeete e il Viminale è un posto più civile».
Che succederà alla Leopolda?
«La Leopolda non è mai stata una manifestazione di partito. La aprirà Dario Nardella, che è mio fratello e che resterà nel Pd. Certo sarà chiusa come sempre dall’intervento di Teresa Bellanova e sarà la sede in cui presenteremo il simbolo. Ma sarà uno spazio di libertà per tutti. Parleremo dell’Italia 2029, dei prossimi 10 anni, non dei prossimi 10 giorni».
Perché un Pd diviso dovrebbe essere più efficace contro il centrodestra. Non lo rafforza?
«Io voglio fare la guerra a chi semina odio. I prossimi anni li voglio passare in contrapposizione frontale contro il populismo di Salvini. Voglio sperare che anche il Pd si preoccupi di lui e non di Matteo Renzi. Non ci sono più alibi, non c’è più il parafulmine, ognuno cammini libero per la sua strada. In mezzo alla gente, non solo nei gruppi parlamentari. La guerra voglio farla a Salvini, non a Zingaretti. Lascio la comodità e mi riprendo la libertà. Ma c’è da costruire un nuovo modello di comunità politica, innovativo, non legato agli schemi ottocenteschi. Io ci proverò con tutto il mio entusiasmo e la mia determinazione. Saremo in tanti».
La Repubblica, 17 settembre 2019

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