martedì, giugno 11, 2019

L’INTERVISTA. “Ogni giorno mi chiedo che cosa penserebbe papà Enrico”


Enrico Berlinguer con la moglie e i figli a Roma nel 1972
Bianca Berlinguer
di Simonetta Fiori
A 35 anni dalla morte del leader del Pci, Bianca Berlinguer ricorda “la sua lezione ancora viva”. E dice: “Non voleva che lo pensassero triste, non lo era”
Ancora oggi non credo di essere riuscita a elaborare completamente il mio lutto». È un momento di pausa a Saxa Rubra, Bianca Berlinguer ha appena fissato la scaletta del suo programma. Chiusa la porta della stanza, perde quel tratto imperioso in cui si rifugiano molto spesso le donne pubbliche per difendersi dal mondo. Sono passati 35 anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer, l’11 giugno 1984, e lei parla del padre con un’emozione intatta, come se quella drammatica pellicola impressa nei ricordi di molti di noi – il malore sul palco di Padova, l’agonia, il funerale in piazza San Giovanni – fosse stata girata ieri.
Perché dici che non hai elaborato il lutto?

«Sento ancora un dolore vivo e profondo, come se una parte di me non si fosse mai rassegnata a quella perdita e a quella assenza».
Non è cambiato nulla in questi anni nel tuo modo di rapportarti a lui?
«Non direi. La sua morte è stata così improvvisa e inaspettata e io ero così giovane che ho faticato a elaborare un rapporto maturo con la sua figura. E poi forse ha inciso anche un altro aspetto».
Quale?
«A me e ai mie fratelli fu sottratta quella intimità che accompagna gli ultimi momenti di vita di un padre e di una madre. Fin dal malore sul palco di Padova, la grande macchina del Pci e la diffusa emozione popolare finirono involontariamente e per troppo amore col sottrarci una parte del nostro dolore rendendolo così condiviso e così pubblico».
Ne parli come se ancora ti toccasse.
«E come potrei mai dimenticare quei giorni? Ci furono di grande conforto il presidente Pertini e i pugni chiusi e i segni della croce di tantissime persone al passaggio della bara. E ancora oggi, a distanza di tanti anni, continuo a percepire affetto e dolore per la sua perdita».
Come spieghi questo rimpianto così vivo?
«Forse perché mio padre è stato capace di rappresentare la speranza di un cambiamento: il Pci ha incarnato questo progetto per molta parte del nostro paese. Allora il leader era una figura mai separata dal suo partito. Ed esisteva una forte identificazione tra il segretario e il militante perché le loro vite erano simili: passione, lotte e sacrifici. E di dedizione a quell’idea».
So che non ti vuoi spingere al paragone con l’oggi.
«È impossibile. Tutto è cambiato, a cominciare dalla divisione del mondo in due blocchi. Poi mi ha sempre dato fastidio questo strattonarlo da una parte o dall’altra per immaginare che cosa avrebbe detto rispetto all’attualità. Non voglio farlo io».
C’è qualcosa che ti disturba nella memoria pubblica di Enrico Berlinguer?
«Ci sono aspetti rimasti nell’ombra, come l’ amore per il suo Paese e le istituzioni democratiche. Non è un suo tratto peculiare, ma proprio di gran parte della sua generazione che coltivava un fortissimo senso dello Stato, a prescindere dalle appartenenze partitiche. Mio padre era un comunista italiano. E negli anni difficili del terrorismo e delle stragi l’interesse nazionale veniva prima anche dello stesso interesse del Pci».
Il feretro era avvolto in una bandiera italiana.
«Sì, così lo accompagnammo nel viaggio dall’ospedale di Padova fino all’aeroporto dove ci imbarcammo sull’aereo del presidente Pertini. Quando arrivammo la sera tardi a Ciampino, mamma si accorse che c’era solo la bandiera rossa. E allora chiese che ci fosse anche il tricolore. Enrico, disse, era prima di tutto un uomo che amava il suo paese».
Fu criticato perché ci mise tanto a fare lo strappo dall’Urss.
«Lo fece quando era sicuro di portarsi dietro tutto il partito. Ma in realtà il suo distacco era maturato da tempo. Già nel 1977 a Mosca il suo discorso sul valore universale della democrazia venne accolto da una reazione glaciale. E nel 1973 c’era stato il gravissimo incidente stradale in Bulgaria: lui era convinto che si fosse trattato di un attentato».
Anche in famiglia non avvertivi un sentimento di vicinanza all’Urss.
«Tutt’altro. Ricordo quando arrivammo a Jalta in nave, nel nostro unico viaggio in Unione Sovietica: guardando verso la banchina papà diceva: “Poveri noi, ecco Ponomariov (un altissimo dirigente del Pcus), ecco Smirnov” (un importante funzionario). Era il 1979 e sapeva di essere un sorvegliato speciale».
Cos’altro non approvi della sua immagine pubblica?
«La tendenza a leggere la questione morale come espressione della diversità antropologica dei comunisti. In quella celebre intervista a Scalfari mio padre denunciò l’occupazione della società e dello Stato da parte dei partiti, anticipando quello che sarebbe poi accaduto, ossia la sfiducia dei cittadini nella politica. Non l’ho mai sentito parlare di superiorità morale dei comunisti».
Il suo tratto caratteriale non ammetteva nessuna supponenza.
«Era un uomo sobrio, ma anche tormentato, che si faceva tante domande. Sentiva il peso di guidare il maggior partito comunista dell’Occidente».
Era timido?
«Sì».
E quando Benigni lo prese in braccio?
«Ero con lui al Pincio. “Ma papà che gli hai detto quando ti ha sollevato?”. “Piano, piano”. Era preoccupato dalla paura di cadere con lui. Però era contento. Benigni gli piaceva molto».
C’è un suo gesto in particolare che ti manca?
«Le tante cose fatte insieme. Ora capisco di più il valore di certe sue attenzioni, quando durante una campagna elettorale difficile o un congresso del Pci lo costringevo, stanco com’era, a preparare con me l’interrogazione di filosofia del giorno dopo».
Cosa gli procurava dispiacere?
«Il fatto di essere considerato triste e serioso. Papà non lo era affatto. Anzi era anche un po’ naif, capace di iniziative imprevedibili, come se volesse recuperare qualcosa che nell’infanzia gli era stata negata. La morte precoce della madre aveva segnato profondamente la sua vita. Da qui anche il tratto di riservatezza e pudore verso i propri sentimenti. Ma con noi figli ritrovava quella giocosità forse mai vissuta pienamente da bambino».
L’ultima volta che hai pensato: cosa avrebbe detto o fatto?
«Sempre, Anche ieri».
Ti capita di chiedergli ancora l’approvazione e temere di non averla?
«L’ho fatto per tutta la vita e continuerò a farlo. Ma credo che sia una prerogativa di tutti i figli rispetto ai propri genitori, soprattutto se sono mancati presto».
La Repubblica, 11 giugno 2019

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