sabato, gennaio 27, 2018

Pietro Di Miceli: "Un abbraccio forte, carissimi Dario e Fabrizia..."

Pietro Di Miceli
PIETRO DI MICELI
La notte del 26 gennaio di quell’anno la passammo a casa della professoressa Oddo in via XXIV Maggio, cugina dell’avvocato, ma soprattutto zia e madre di Dario, dopo la prematura scomparsa della sua mamma. Fabrizia, arrivata precipitosamente da Palermo, dove abitava in casa degli zii Tinè, in via Giovanni Bonanno, si abbandonò sul divano; non riuscivamo a dirle nulla, eravamo rimasti attoniti e stravolti dalla notizia; piangeva composta e guardava il lampadario, ma era assente. Mi avvicinai a lei, la sua mano era gelida per il freddo, non ricordo se aveva piovuto, ma c’era molto freddo.  Era già buio. Dario si agitava nervosamente e continuava a chiedersi il perché di tanta efferatezza. In poco tempo la casa si riempì di amici e parenti, ma anche di curiosi e giornalisti, che (come ricordato ieri) arrivarono da Palermo.
Dario e Fabrizia Triolo
Il giorno dei funerali eravamo tutti presenti nella Chiesa Madre, troppo piccola per contenere i tanti amici di Corleone e di Palermo venuti apposta per stringersi intorno a Dario e Fabrizia. Finita la messa, mio fratello Giovanni ci ingiunse di portare la bara a spalla. Lui davanti, io dietro, dopo di me non ricordo chi c’era, ma dall’altra parte - più alti noi - c’erano Salvatore Puccio e Dario Lanza e - se la memoria non mi tradisce - Macaluso, il fido muratore di casa Triolo. La bara traballò, eravamo sbilanciati e io mi slogai una spalla. Riuscimmo a mala pena ad uscire dalla Chiesa; fuori una marea umana; non ricordo più nulla.
Condivido appieno l’analisi del prof. Lo Verso, esposta nell’interessante intervento di ieri, quando ha sostenuto che le vittime di mafia non sono soltanto chi muore e i loro familiari. Siamo anche noi vittime, in un certo senso. Eravamo giovani e spensierati, trascorrevamo l’estate a Chiosi nella casa dei Ridulfo e a volte anche a San Calogero nella splendida terrazza della casa dell’avvocato Triolo, con una vista mozzafiato sulla valle che guarda
i paesi del trapanese. Ascoltavamo musica e ballavamo i lenti con i dischi in vinile  dei Pink Floyd, dei The Platters, di Battisti,e Baglioni, che portava Giuseppe Ridulfo, chiamato da noi affettuosamente “Picio” grande appassionato ed  esperto di musica ed organizzatore di indimenticabili serate al chiaro di luna, con le immancabili spaghettate cucinate da sua madre nel pentolone di rame, nella casa in contrada Pilastri. Io avevo ancora il Romeo 50 che le ragazze chiamavano “Bombo”, mio fratello aveva il Morini
Corsaro 125, comprato di seconda mano da Giovanni Alfieri, che nel frattempo era passato al 3/50. Dario, dopo aver distrutto il Gilera 50 Enduro, scorazzava con una 125 da cross sempre attorniato dalle ragazzine, attratte dai suoi modi gentili e dai riccioli neri che gli contornavano il capo. Indossava le prime lacoste colorate e le college ai piedi. Fabrizia veniva soltanto nei mesi estivi e ai primi di settembre rientrava a Palermo. Il pomeriggio si accompagnava spesso con le cugine Teresa e Lucia Oddo. Lei era tutto il contrario di Dario; lui esuberante e a volte spocchioso, ma sempre rispettoso e di buone maniere, lei schiva e riservata: mai fuori tono, portava spesso jeans scuri e camice chiare che esaltavano le Sue forme. La sera, quando si ballava in casa Ridulfo, veniva con gonne lunghe colorate, con le scarpe di tela con il tacco di corda, come si portavano allora. Eravamo felici, aspettavamo l’estate per incontrarci e qualche volta ci vedevamo d’inverno anche a Palermo. L’estate del ’78, a causa del triste avvenimento, non fu come le precedenti. La barbara uccisione dell’avvocato aveva lacerato tutti, eravamo tutti pervasi di
malinconia, non era più come prima, anzi, stava per finire tutto. Dario aveva perso lo smalto e quell’irresistibile appeal che aveva fatto innamorare tante coetanee e che molti di noi invidiavano. Fabrizia cominciò a venire sempre meno; a San Calogero non c’era più il  suo papà ad aspettarla. Anche lei aveva perso la lucentezza e il sorriso, i suoi occhi celesti come le albe di San Calogero non brillavano più. Negli anni che seguirono tutto andò sempre più a scemare, sino a perderci completamente di vista. Dopo circa 25 anni, con gioia, ho accolto nel mio ufficio, tra i miei collaboratori, Dario appena assunto in Regione.
Riabbraccio Fabrizia dopo 40 anni, frastornato dall’emozione e dal ricordo di quegli anni spensierati e indimenticabili. Peccato, anzi mannaggia alla mafia e ai poteri criminali che, oltre ad avere sconvolto intere famiglie, hanno distrutto gli affetti più genuini e cari. Sono passati tanti anni, ma i sentimenti e le emozioni che riaffiorano dal profondo dei nostri cuori non si sono cancellati, forse per troppo tempo erano rimasti in oblio. Sarebbe bello trovare il modo per continuare a ricordare il sacrificio dei nostri martiri, nella speranza che i nostri figli possano vivere in un mondo più giusto e libero dalla mafia. Mi chiedo, a volte, se abbiamo fatto abbastanza. Un abbraccio forte, carissimi Dario e Fabrizia.
Pietro Di Miceli


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