venerdì, gennaio 26, 2018

1968-2018. Cinquant’anni dal terremoto del Belìce

Nicola Scafidi - Comune di Santa Margherita del Belice
Vicende e visioni. Fondazione Sant’Elia | PALERMO. 28 gennaio > 14 marzo 2018Alle 16.48, ci fu la terza scossa: si sbriciolarono i muri di Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Margherita e Santa Ninfa. Nella notte, alle 2.33, un’altra scossa molto violenta si avvertì fino a Pantelleria. Ma quella devastante, definitiva, fu alle 3.01: il Belìce non esisteva più, i soccorritori si trovarono dinanzi – quando riuscirono a raggiungere la valle percorrendo strade distrutte – un paesaggio lunare, paradossale, senza vita. Il terremoto che squassò il Belìce, nel cuore del Trapanese, cinquant’anni fa – nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 morirono quasi 300 persone, 1000 furono i feriti e 70 mila gli sfollati - rase al suolo paesi abitati soprattutto da vecchi, donne e bambini, visto che gli uomini erano emigrati in cerca di lavoro. E portò alla luce una realtà sconosciuta, quella della Sicilia rurale e arretrata che lo Stato aveva dimenticato. Il terremoto del Belìce fu il primo grande “caso” del dopoguerra che mise a nudo l’impreparazione dei soccorritori, l’inerzia dello Stato, lo squallore dei luoghi dove ancora, nel 1976, 47 mila persone vivevano nelle baracche. Le ultime 250 furono distrutte nel 2006.

Nell’anno del cinquantenario, la mostra “PAUSA SISMICA. 1968/2018 Cinquant’anni dal terremoto del Belìce. Vicende e visioni” – che la Fondazione Sant’Elia, a Palermo, ospita dal 28 gennaio al 14 marzo, nell'ambito di PALERMO CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2018.
Inaugurazione: 27 gennaio, alle 17.30 - ripercorre la storia di Gibellina, dal terremoto che la rase al suolo, alla costruzione della città nuova, rifondata sul sogno del suo sindaco Ludovico Corrao, fermamente convinto che soltanto attraverso l’arte si potesse pensare alla rinascita. Gibellina, dunque, come un museo a cielo aperto: che parte dalle foto del sisma e arriva alle opere di oggi, avviando un percorso a più voci sul dialogo, le migrazioni, il confronto, attraverso l’inedita installazione di Mustafa Sabbagh, “http 502: bad gateway, 2017”Susan Kleinberg, Claudio Beorchia, Adrian Paci e Daesung Lee. In mostra per la prima volta anche “Pausa sismica”, installazione realizzata dal duo svedeseBigert&Bergstrom nel 1992 per la mostra "Paesaggio con rovine" a cura di Achille Bonito Oliva; il cartello fu collocato all’ingresso della città dove è rimasto fino ai primi anni Duemila. La Fondazione Orestiadi ha deciso di realizzarlo di nuovo per questa mostra – che da qui prende il titolo -; alla fine dell’esposizione, l’opera ritornerà nel luogo per il quale lo hanno pensato Lars Bergström e Mars Bigert.

A raccontare la storia di Gibellina e del Belìce saranno subito le fotografie, i video, i materiali documentari raccolti durante un lungo lavoro di ricerca tra diverse istituzioni che qui compongono la trama di una memoria viva. La rinascita passa invece dalle opere degli artisti, radicate nell’identità di Gibellina Nuova.
Cinquant’anni densi di avvenimenti, per una storia che attraversa i cambiamenti sociali che proprio dalla Valle del Belìce, in quel periodo, stavano nascendo dal basso, diventandone parte integrante.
La mostra - curata dalla Fondazione Orestiadi e coprodotta dalla Fondazione Sant’Elia, in collaborazione con il Comune di Gibellina - va avanti per temi e sezioni che, nel loro intrecciarsi, restituiscono la complessità dell’accaduto. Si parte dalla notte del terremoto, tra il 14 e il 15 gennaio 1968: gli scatti dei fotografi - Enzo Brai, Nino Giaramidaro, Melo Minnella, Nicola Scafidi - che si precipitarono nella Valle, arrivando con mezzi di fortuna pur di raccontare i fatti; i primi documenti video provenienti dalle Teche RAI, il primo telegiornale che annunciò il terremoto al mondo. Dagli archivi del Giornale di Sicilia, un video viaggia attraverso le pagine storiche del quotidiano, i racconti degli inviati tra le macerie, raccoglie le voci di chi si ritrovò senza nulla. Poi il periodo nelle baracche: tredici lunghissimi anni di permanenza prima del trasferimento nella città nuova. Tra i documenti, anche quattro foto di Letizia Battaglia che raggiunse la baraccopoli nei primissimi anni Settanta. Alla ricostruzione e a Gibellina Nuova è poi dedicata un’intera sezione della mostra che esplora l’urbanistica, le architetture, le sculture attraverso le fotografie (di Roberto Collovà, Andrea Jemolo e Sandro Scalia) e i modelli delle opere realizzate: furono in tantissimi gli artisti accorsi a Gibellina raccogliendo l’appello di Ludovico Corrao nel 1970. Ognuno lasciò un’impronta, secondo il suo stile. Esposti il modello per Il Sistema delle Piazze di Franco Purini e Laura Thermes, quello del teatro mai completato di Pietro Consagra con il vicino Meeting.  La modernissima Chiesa di Ludovico Quaroni e Luisa Aversa, il modello del Cretto di Burri. E le sculture disseminate per la città, vero museo a cielo aperto: il modello per La Porta del Belice (la famosa Stella) di Pietro Consagra, “Contrappunto” (1984) di Fausto Melotti, “Tracce antropomorfe” di Nanda Vigo.                                               
Contemporaneamente alla città, Gibellina ricostruiva anche la sua comunità, per la quale un ruolo fondamentale ha svolto il teatro. Momento di rifondazione di valori, ma anche strumento pratico di aggregazione dei saperi degli artigiani per la produzione di scenografie, costumi e opere d’arte. Dal costante dialogo tra gli uomini dei luoghi e i numerosi artisti italiani e stranieri che a Gibellina hanno trascorso lunghi periodi di creazione, nacquero i “Prisenti” portati in processione durante la festa di San Rocco e ricamati dalle donne di Gibellina. Ma anche le sculture, le spettacolari scenografie di Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino, Pietro Consagra per alcuni spettacoli rimasti come segni della Storia, a partire dalla scenografia del primo spettacolo delle Orestiadi, “Gibella del martirio” di Emilio Isgrò; e le testimonianze degli atelier di tanti artisti che hanno marcato il Novecento, da Schifano, a Rotella, Scialoja, Angeli
A fare da contraltare alla vita della città nuova, è stato il sudario di Alberto Burri sulle rovine di Gibellina vecchia: quel Cretto che è un progetto unico al mondo ancora oggi depositario di un valore artistico, etico, comunitario che si rinnova ogni giorno.
Vero cuore della Gibellina fucina d’arte, è il Museo delle Trame Mediterranee: viene raccontato da un’installazione realizzata da Antonio De Luca e Stalker per la mostra itinerante “L’Islam in Sicilia”, che ha portato il messaggio della Fondazione Orestiadi - l’arte  come messaggera di pace - in tutte le grandi capitali del mondo arabo. La biblioteca siculo-araba di Antonio De Luca e Stalker è un viaggio immersivo nella luce: 30 lastre di cristallo che descrivono le città siciliane come furono viste da Idrisi:  illuminate con luce wood, creano uno spazio fantastico dove le pagine di cristallo sembrano volare.

Al dialogo – o non dialogo – tra i popoli del Mediterraneo, hanno lavorato gli artisti dell’oggi, dell’urgenza: così l’installazione audio/video inedita diMustafa Sabbagh, “http 502: bad gateway, 2017”, trova un punto di incontro tra le migrazioni e la Valle del Belice distrutta. Sulla stessa scia si muovono anche Susan Kleinberg, con “Tierra sin males” (2011) e  Claudio Beorchia, “Stato di emergenza”, 2016, installazione che parte dalla coperta termica offerta ai migranti al loro arrivo sulle coste italiane. Sul tema delle migrazioni ha lavorato anche Adrian Paci – “ Home to go” (2001), mentre le immagini di Daesung Lee, “On the shore of a vanishing Island” (2011), già presentate alla prima edizione del “Gibellina Photoroad”, fanno riflettere sui cambiamenti climatici in atto nel pianeta.

Tutte le sezioni sono accompagnate dai testi dei grandi poeti che in questi decenni hanno testimoniato con la loro presenza la vicinanza alla gente di Gibellina e che della cittadina siciliana hanno fatto un loro luogo di elezione, come Adonis, Ignazio Buttitta, Jolanda Insana, Emilio Isgrò, Sa’adi Yusuf.


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