«Era giovane, aveva all’incirca trent’anni». La voce di Vincenza Scimeca è ferma mentre rievoca la sera dell’8 ottobre 1998, quando suo marito Mico Geraci, venne ucciso davanti al portone di casa, a Caccamo. Trentasette anni dopo, la vedova del sindacalista della Uil è salita per la prima volta sul banco dei testimoni, nella nuova udienza del processo ai fratelli Pietro e Salvatore Rinella, capimafia di Trabia che hanno seguito il dibattimento in videocollegamento, accusati di essere i mandanti dell’omicidio.
Geraci era tornato a casa intorno alle 20,30: «Suonò il campanello, era lui – ha raccontato Scimeca – ma subito dopo sentii anche gli spari». La donna si affacciò al balcone e vide il sicario fuggire, poi si precipitò in strada: «Mico era a terra». La scena, riferita davanti alla Corte d’assise è rimasta immutata nella sua memoria, amarezza compresa. «I vicini hanno negato anche di aver sentito gli spari e di avere visto qualsiasi cosa. Mio marito era preoccupato, soprattutto nell’ultimo periodo.
Aveva partecipato a un convegno su mafia e piano regolatore, c’era in gioco la sua candidatura».Quel giorno Geraci avrebbe dovuto incontrare alcune persone per discutere la possibilità di candidarsi a sindaco con il centrosinistra. Ma a quell’appuntamento non arrivò mai. Secondo l’accusa, il suo nome cominciava a pesare troppo in un territorio che Cosa nostra considerava una zona franca. L’agguato sarebbe stato commissionato per fare un favore a Bernardo Provenzano, il superlatitante che proprio a Caccamo aveva una delle sue roccaforti. In aula sono stati sentiti anche i figli della vittima. Giuseppe Geraci, che all’epoca aveva 19 anni, ha ricordato il clima di tensione che si respirava: «Mio papà era preoccupatissimo - ha detto - si informava sempre, tutte le volte che uscivamo, dove andavamo».
Ha raccontato un episodio emblematico: «Ha allontanato Puccio che era un assistito dal sindacato. Purtroppo il mio rammarico è anche quello di non avergli chiesto esattamente che cosa è che lo preoccupasse». Proprio Salvatore Puccio - assieme a Giorgio Liberto, un altro componente della famiglia mafiosa di Caccamo - si sarebbe rivolto a Provenzano per chiedere l’eliminazione del sindacalista scavalcando così il capo del mandamento Nino Giuffrè, successivamente diventato collaboratore di giustizia. E «u Zu Binu», per uccidere Geraci, si sarebbe rivolto a Salvatore e Pietro Rinella che, all’epoca, erano al vertice della famiglia mafiosa di Trabia.
A inchiodare i due sono state le dichiarazioni dei pentiti che hanno ricostruito la rete di interessi illeciti minacciata dall’attivismo politico e sindacale di Geraci. Il suo rifiuto di assecondare le pratiche per ottenere i contributi agricoli, che alcuni affiliati avevano presentato al patronato, sarebbe stata la causa scatenante della sua condanna a morte, come pure il fatto di avere infranto la regola del silenzio mafioso nelle sue denunce dai microfoni dei comizi e dei dibattiti pubblici.
Per la Procura, il delitto venne materialmente realizzato da due giovani, Filippo Lo Coco e Antonino Canu, poi entrambi morti ammazzati: il primo venne ucciso il 7 novembre 1998, su ordine dei Rinella, e il secondo il 27 gennaio del 2006. Nel pomeriggio è cominciata anche l’audizione di Giovanni Geraci, l’altro figlio della vittima, ma un blackout ha costretto a rinviare la deposizione che riprenderà il 28 maggio.
GdS, 16/4/25
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