mercoledì, febbraio 14, 2024

Una storia di mafia e amore dei primi del Novecento. Il romanzo storico di Salvatore Lupo


di 
Amelia Crisantino

Protagonista un questore romagnolo che, come un secolo più tardi Falcone e Borsellino, istruì un maxiprocesso contro le prime cosche criminali siciliane

Molto spesso, l’ignoranza del cittadino italiano per la storia viene giustificata accusando gli storici di non fare amare la loro materia, di non praticare la divulgazione e scrivere per una ristretta cerchia di addetti ai lavori. Parole che sanno di stereotipo, ma che pure contengono un robusto fondo di verità ed è quindi una piacevole sorpresa che Salvatore Lupo, uno dei più affermati storici italiani, abbia deciso di varcare la soglia che separa le ricerche d’archivio dai personaggi d’invenzione approdando in libreria con “Una storia di mafia e amore. Carte perdute e ritrovate”  (Zolfo editore, 167 pagine, 16 euro).

Per rimanere alla definizione dell’autore siamo di fronte a «un romanzo storico, ovvero un misto di storia e d’invenzione». Lo sfondo è la Palermo del primo Novecento, compaiono altre città ma sempre legate a quanto va accadendo a Palermo. È un romanzo di “carte perdute e ritrovate”, fatto soprattutto di lettere e fogli strappati, pagine di diario, appunti. Come un sedimentarsi di parole attorno a protagonisti osservati dall’esterno nelle loro intenzioni e interessi, nel loro muovere pedine che agiscono come su una scena teatrale. Lupo sceglie di raccontare con un altro registro linguistico un periodo che ha più volte osservato nei suoi saggi; affronta la zona d’ombra dove il risultato di pressioni ovattate e difficili da decifrare orienta azioni che – osservate dall’esterno – mai denunciano il loro vero carattere.

Il protagonista è Ermanno Sangiorgi, questore di Palermo nell’agosto 1898, un romagnolo esperto dell’ambiente per essere già stato a Palermo dal 1875 al 1877. Era stato Ispettore al mandamento Molo, quando la questura di Palermo aveva provato a spiegare la continua emergenza con l’operato di una setta segreta e potente, che risentiva di modelli massonici e carbonari. Ma ogni epoca offre quello che produce. Dal novembre 1898 al febbraio 1900 Sangiorgi invia al ministro 31 rapporti per un totale di 485 pagine, in cui delinea la vasta rete associativa – organizzata in sezioni e divisa in gruppi, ognuno con un capo – che agisce sotto la protezione di influenti personaggi: è la stessa struttura che Buscetta avrebbe svelato al giudice Falcone, con rivelazioni che nel febbraio 1986 portano al maxiprocesso.


Anche Sangiorgi lavora per un maxiprocesso, individua 218 mafiosi divisi in otto gruppi in un’area che si estende dalla Piana dei Colli all’Olivella. Riesce a portare in aula 51 imputati, i condannati sono 31 e la pena è mite, in genere 3 anni e 6 mesi. Così come molto leggere erano state le pene per altri processi cominciati con molte, forse troppe ambizioni. Il romanzo storico di Lupo sente la suggestione di Sciascia e del suo capitano Bellodi, scarnifica la realtà per mostrarne le nervature. Parte dal questore Sangiorgi e apre alcune questioni che per forza risentono della storia dei nostri anni, gira attorno a una domanda fondamentale che irrompe rimanendo senza risposta già nelle prime pagine: lo Stato, o per meglio dire un suo rappresentante, può trattare coi mafiosi? Sino a che punto?

I rapporti del questore Sangiorgi saranno presto dimenticati, a ogni emergenza si ricomincerà daccapo mentre il circuito politico-affaristico locale e quello nazionale si incrociano con naturalezza, in una ostentazione di reciproche buone intenzioni. Il meccanismo è oliato dalla ferma intenzione di conservare il proprio potere, senza aprire spazi ad altri protagonisti sociali. I granelli che in teoria possono puntare a incepparlo sono persone non del tutto integrate, degli anticonformisti come a volte sono le donne.

È un romanzo anche d’amore, ed Ermanno Sangiorgi si lascerebbe mettere in crisi da Elena, figura dalla forte personalità capace di scrivergli «spiegalo tu chi siano i manutengoli, cosa davvero sia il manutengolismo». In una pagina del suo diario, Sangiorgi riflette su Ignazio Florio e sua madre, su un furto subito nella loro villa all’Olivuzza, sugli oggetti ricomparsi come per magia. Elena finisce per ricordare come anche il suo amatissimo padre tenesse un guardiano che però non si faceva vedere, bastava il nome e nessuno avrebbe toccato niente. Tutti episodi da osservare con occhi nuovi, in un ambiente dove l’importante è non creare scandali né per il presente né per il passato. E Lupo lascia vedere come quelle carte particolari che gli storici chiamano fonti possano essere manipolate o anche soppresse, per soffocare la verità.

La Repubblica Palermo, 14/2/2024

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