domenica, aprile 10, 2022

IL PERSONAGGIO. Vito Riggio: “Io, Orlando e Palermo, dai sogni alle sconfitte”

di FABRIZIO LENTINI

Amici da ragazzi, poi in tandem al Comune fino alla rottura. Ora l’ex capo Enac traccia il bilancio di 40 anni 

«Luca lo conobbi alla festa dei 18 anni di Gabriella Monroy, mia amica carissima. Me lo presentarono lì: era magro, occhi e capelli nerissimi, panciotto grigio. Poi ci rivedemmo in facoltà e cominciammo a frequentarci, a parlare di politica». 

La occupaste, quella facoltà, in pieno ’68. 

«Sì, anche se per la verità io e Cocilovo la sera ce ne andammo, per non dormire lì dentro. Orlando non ci provò nemmeno: era il figlio del preside, e il padre non poteva permetterglielo. Ma la mitologia su Orlando contempla anche quell’occupazione». 

Dentro e intorno a quelle aule avete imparato il diritto ma anche l’arte di conquistare il potere... 

«Molti erano figli d’arte. Predestinati. Orlando, ma anche La Loggia, Vizzini, Musotto. Io no, io sono figlio di una maestra elementare e di un segretario comunale originario di Burgio che con la famiglia aveva peregrinato per la provincia siciliana: Barrafranca, dove sono nato, Palazzo Adriano, Sciara, Trabia. Ma all’epoca l’ascensore sociale funzionava. E in politica, al potere, arrivava chi meritava, chi aveva studiato. Io cominciai come consulente giuridico di Angelo Bonfiglio, presidente della Regione ma anche avvocato brillante, laureato alla Cattolica». 

Democristiano, naturalmente. E anche lei lo diventò, in quegli anni Settanta in cui la Dc era ancora il partito-Stato. 

«Non subito. Prima avevo seguito Livio Labor che ruppe il collateralismo delle Acli e si lanciò nell’utopia del suo Movimento politico dei lavoratori. Ma alle elezioni del 1972 prendemmo 120mila voti in tutta Italia, meno delle preferenze di un solo eletto dc in Sicilia. Lì capii che era un’illusione spaccare la Dc e il Pci. Io però mi defilai, entrai nella Cisl di Carniti». 

Come i suoi amici D’Antoni e Cocilovo. Ma la Cisl allora era anche una corrente democristiana. E tra politica e sindacato c’erano porte girevoli. Nel 1979, a 32 anni, stava per diventare deputato nazionale. 

«Sì, era tutto deciso, i capicorrente erano d’accordo. Ma la mafia aveva appena ucciso Michele Reina, c’era una brutta aria, ebbi paura. All’ultima riunione per definire la lista dissi di no. Ciccio Canino, cislino trapanese, mi aggredì: “Disgraziato, ho già i volantini stampati”». 

Nel 1985 però Sergio Mattarella, commissario a Palermo della Dc terremotata dalle inchieste antimafia, la riportò sulla scena: candidato a Palermo, consigliere comunale, capogruppo. Ritrovò i vecchi amici: La Loggia era il suo vice, Orlando il nuovo sindaco. 

«Il rinnovamento portò tanti giovani a Sala delle Lapidi. Mattarella aveva convinto diversi esponenti della vecchia guardia a farsi da parte. Alcuni lanciarono i figli. In Consiglio arrivarono anche i ventenni: Rosalba Bellomare, Francesco Cascio». 

Dopo l’elezione di Orlando, andaste a ringraziare Salvo Lima. Perché? Che c’entrava Lima col rinnovamento? 

«I suoi avevano votato Orlando sindaco compattamente, a scrutinio segreto. E non era scontato. Luca venne a prendermi e andammo insieme a casa di Lima, a Mondello. 

Io gli dissi che quando mi danno il volante pretendo di guidare. Ma che accettavo consigli. E Lima ci rispose che il problema principale di cui dovevamo occuparci era il traffico». 

Orlando invece ha negato di avere mai avuto contatti con Lima. 

«Non so perché. Non c’era niente di male in quell’incontro. E non so neanche perché, al pm dell’inchiesta sul teatro Massimo, disse che io ero passato con Lima». 

Il tandem con Orlando durò poco: due anni. Nel 1987 lei salutò tutti e andò a fare il deputato alla Camera. Perché? 

«Feci in tempo a mandare in porto l’ultimo concorso per dirigenti, che innestò nell’amministrazione comunale tanti laureati giovani e preparati, oggi ahimè quasi tutti in pensione. Capii però che Orlando e padre Pintacuda avevano una strategia che non era la mia. Allearsi con i comunisti a danno dei socialisti. Alzare il tono della polemica con gli andreottiani, che pure erano presenti nella giunta. Liquidare in nome dell’antimafia quel poco di imprenditoria che c’era a Palermo. Di tutto ciò ebbi una riprova quando si discusse il progetto di risanamento della costa sud. Con Mattarella e Orlando avevamo concordato il via libera, poi invece in aula il sindaco avallò l’ostruzionismo del Pci e fece cadere la delibera. Nel mirino c’era la Sailem dei D’Agostino, che avrebbe eseguito gran parte dei lavori. Quell’impresa non mi aveva certo fatto favori, eppure poco dopo seppi che era arrivata al giornale L’Ora una lettera anonima in cui si diceva che io ero il nuovo Ciancimino. Era troppo». 

Orlando provò a trattenerla? 

«Quando intuì che stavo per dissociarmi, mi disse che non capivo il suo disegno politico. Che, se lo avessi seguito, uno di noi sarebbe diventato segretario nazionale della Dc e l’altro presidente del Consiglio. Risposi che stavo per chiamare un’ambulanza. E uscii dalla stanza del sindaco a Palazzo delle Aquile. 

Non ci sono mai più rientrato». 

Oggi l’era Orlando sta per concludersi. E non in gloria. 

«Orlando ha la colpa fondamentale di aver trascurato l’amministrazione privilegiando i simboli: la capitale dell’antimafia anziché la riscossione dei tributi, la raccolta dell’immondizia o la riparazione dei marciapiedi dissestati. Così ha gratificato la borghesia che viaggiando non si sentiva più appellare come mafiosa. Ma i fatti sono argomenti testardi. E senza i fatti anche i simboli svaniscono. Perché non era possibile coniugare lenzuoli antimafia e marciapiedi sani? Come mai in quarant’anni non si è formata una nuova classe dirigente? L’albero, è scritto nel libro del Siracide, si giudica dai frutti». 

Non sarà solo responsabilità di Orlando se le cose non vanno. Anche i palermitani avranno le loro colpe... 

«Ne hanno moltissime. A cominciare dall’aver delegato a un leader la risoluzione di tutti i problemi. Ma “to lead”, in inglese, significa anche tenere al guinzaglio. E i palermitani si sono fatti prendere al guinzaglio da tutti i leader populisti, alternando l’uno all’altro: nel novembre 1993 il 75 per cento dei voti a Orlando, quattro mesi dopo tutti i collegi delle Politiche a Berlusconi». 

Lei è rimasto in mezzo al guado: non orlandiano ma neanche berlusconiano come La Loggia. 

«Non ho voluto mettermi al servizio di un padrone. E nemmeno di un partito padronale: dissi di no anche a Dini che mi offriva un seggio sicuro». 

Però di potere ne ha gestito lo stesso: quindici anni alla guida dell’Ente nazionale aviazione civile. 

«Mi chiamò Pietro Lunardi, con cui c’era un rapporto di stima. Io lo avevo chiamato a collaborare con la Protezione civile, quando ero sottosegretario, e lui chiamò me, quando era ministro delle Infrastrutture. Poi però mi hanno confermato tutti: da Prodi a Renzi». 

Torniamo a Palermo. Chi può essere un buon sindaco? 

«Per la sua autorevolezza Roberto Lagalla, che stimo ed è mio amico dai tempi del Patto Segni. Anche Franco Miceli è un buon candidato. Ma sconsiglio a tutti di correre senza soldi, senza impiegati e senza società civile». 

Miceli ha 70 anni, Lagalla 67. La solita meglio gioventù di ieri. La sua generazione ha vinto, per citare e contraddire Gaber? 

«No, la mia generazione ha perso. 

Volevamo cambiare l’Italia ma non abbiamo avuto il tempo di maturare come nuova classe dirigente. Il Partito comunista non poteva governare e la Democrazia cristiana era condannata a farlo, accumulando tutti i vizi di una lunga permanenza al potere. Quando è arrivato il ricambio, è toccato a Berlusconi, e poi a Grillo». 

Anche in Sicilia ha perso? 

«Dalla Sicilia oggi i giovani più preparati se ne vanno, le migliori intelligenze partono per studiare, per laurearsi, per lavorare. A Palermo 63mila famiglie vivono col reddito di cittadinanza. Non è una sconfitta?». 


La Repubblica Palermo, 10/4/2022

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