venerdì, settembre 04, 2020

RIVOLUZIONE LAICA

Con questo intervento di Roberto Tagliavia, Città Nuove vuole avviare un dibattito-confronto con i cittadini che s'interrogano seriamente sul futuro della Sicilia e dei nostri territori. Come leggere la realtà di oggi, le dinamiche dell'economia, dei flussi migratori, della cultura? Cosa pensare di territori come i nostri che sembrano impoverirsi sempre di più, sia dal punto di vista economico-sociale, sia da un punto di vista culturale? Città Nuove ospiterà tutti gli interventi, disponibile poi ad organizzare anche un incontro in una data e in un luogo da concordare. (dp) 

di ROBERTO TAGLIAVIA

Forse non ce ne rendiamo pienamente conto ma, dopo il Covid, saremo costretti a rivedere analisi e convinzioni radicate su economia, rapporti sociali cultura e politica. Ciò nonostante ho l’impressione che nessuno creda che sia davvero possibile cambiare, al più c’è la speranza ma lo scetticismo è palpabile. Del resto la cronaca ci rimbalza notizie di stupidità, violenza e inefficienza che gettano ombre inquietanti sul futuro. Cambiare, quindi, non sarà facile ma lasciare che le cose vadano come sempre sono andate porterà a un incanaglimento della società che nessuno si augura. Cosa cambiare, allora, e come intervenire?

C’è chi si applica a questa o quella misura: il nuovo modo di lavorare, i tempi della giustizia, la riforma della pubblica amministrazione, la scuola, la ricerca scientifica, la circolazione del denaro, più Europa o più Stato nazione o più autonomie locali. Sono tutti temi seri e importanti ma che non toccano il male profondo di una società che vedendo messo in pericolo il futuro non ritrova fiducia nelle corrette relazioni sociali. Tutti i nuovi scenari appaiono belle intenzioni e nulla di più perché non è chiaro chi dovrebbe realizzarle né come, anzi c’è il retro pensiero che di fronte alla gran massa di finanziamenti che si prefigurano per il dopo Covid finirà che prevarrà la regola del “chi afferra il turco è suo” in barba a ogni regola.

C’è la percezione che la dimensione dei fenomeni sia ingovernabile: dalle migrazioni al clima, dal controllo delle risorse e della finanza alla complessità dei processi decisionali. Non resterebbe altro che rifugiarsi in piccole comunità rassicuranti, discriminando gli altri e alzando muri per tenere fermo il controllo del proprio territorio e delle sue risorse. E’ una ricetta vecchia, terribile, che ci consegna ai clan, alle bande di quartiere, che ci obbliga a trasformare tradizioni e culture in segni di riconoscimento identitari, per separare i campi tra noi e loro, dove noi siamo noi con i nostri diritti e loro sono gli altri con le loro inaccettabili pretese.

Questo scivolamento verso semplificazioni rozze che pretendono di garantire la sicurezza economica della collettività di cui facciamo parte, in realtà non garantisce che altre comunità abbiano il sopravvento sulla nostra e che aumenti il senso generale d’insicurezza e di disperazione. Il futuro di ciascuno è meno sicuro ripercorrendo i vecchi modelli che fin qui hanno governato le nostre azioni, eppure non avvertiamo l’urgenza di una mutazione profonda della nostra cultura, di un ribaltamento completo del nostro modo di pensare, abbandonando concorrenzialità a favore della cooperazione, rifuggendo la bulimia dell’avere per sostituirla con le ragioni dell’essere. Oggi siamo miliardi su miliardi, abbiamo scoperto i limiti della Terra e abbiamo le armi atomiche: le strade antiche non sono più percorribili a meno di un disastro irreversibile.

Vabbè, poesia diranno molti! Chi mai avrebbe tempo capacità e risorse per provocare una totale conversione dei nostri rapporti sociali? Meglio impegnarsi ciascuno per il proprio campo, senza pensare di cambiare la società, il sistema o il mondo.

Questo pseudo realismo, però, ci fa restare fermi al punto di partenza. E’ possibile perseguire obiettivi di crescita e sviluppo se non riescono a trasformarsi in comportamenti condivisi, in politiche comuni? E’ possibile coltivare le proprie attività senza entrare in conflitto con le attività di altri? Evidentemente no. Perché, allora, giuste battaglie sindacali, politiche, economiche appaiono velleitarie e non riescono più a convincere le popolazioni a muoversi in una direzione condivisa? Qual è il tarlo che logora ogni sforzo comune?

È forse la mancanza di leader capace di unire almeno uno schieramento?

La verità è che anche il leaderismo di questi anni ha rivelato tutta la sua fragilità. Non è possibile, di fronte alla crisi epocale che viviamo e alla difficoltà di gestire una società complessa, pensare che la volontà di un leader possa bastare. Senza un’analisi e una selezione degli obiettivi, senza una comprensione e condivisione di massa di ciò che serve ai tempi nuovi, non c’è leaderismo che tenga.

Non c’è più il socialismo, che a lungo ha svolto questa funzione, e anche le grandi religioni non sembrano capaci di fronteggiare i processi innescati da scoperte tecniche e scientifiche che hanno mutato la consapevolezza di ciascuno di noi. Né l’estremismo o l’integralismo possono supplire al tramonto di vecchie regole e superati codici interpretativi.

Oggi servirebbe una nuova moralità confuciana, una lettura del mondo, una religione laica capace di orientare i comportamenti prima e al di là delle proposte culturali e politiche che dovranno rinascere nel nuovo contesto. Serve subito una straordinaria mobilitazione culturale. Subito, ma è possibile realizzare un simile cambiamento in pochi anni?

Giusto il richiamo alle grandi religioni mi riporta alla memoria la straordinaria esplosione mussulmana che seppe espandersi in soli 50 anni dalla Spagna all’Africa centrosettentrionale, all’India e al Borneo fino all’Asia continentale alla Turchia e ai Balcani, partendo da una comunità non particolarmente organizzata. Questa espansione diede vita a stati e regni molto diversi tra loro ma tutti assimilati da regole di comportamento e da valori comuni, da una cultura di fondo condivisa, e questa fu la loro forza. Era una cultura semplice per uomini semplici che fino ad allora erano vissuti ai margini di sistemi imperiali complessi e opprimenti. Le poche e comprensibili spiegazioni del Profeta prevalsero su religioni complesse come l’Induismo o lo stesso Cristianesimo con le sue diatribe sulla natura del Cristo o la complicatissima verità dell’unicità e trinità di Dio. Un’idea semplice: esisteva un solo Dio cui ciascun fedele poteva accedere con poche semplici regole che bastavano al rapporto diretto. Erano in parte norme igieniche e salutari che accompagnavano le preghiere di ogni giorno e le grandi ricorrenze annuali, e poche chiare regole per i rapporti economici e sociali. Aboliti tutti gli altri riti e ammennicoli pagani, la condivisione pubblica di questo stile di vita sobrio e austero fu una delle ragioni della rapidissima espansione e del successo duraturo: una semplicità che seppe conquistare l’umanità dispersa della penisola arabica, darle un tratto identitario, una coscienza comune, una linea di riorganizzazione delle relazioni sociali politiche ed economiche liberandola da gruppi dominanti privi di orizzonti e offrendole una ragione per farsi rispettare dai popoli confinanti. Poi la storia ha preso altre strade e l’espansione si è spenta e cristallizzata in tante realtà ormai anch’esse incapaci di offrire una soluzione ai problemi dei tempi moderni. Vale per tutti ciò che ci hanno rivelato le primavere arabe e, in ultimo, ci sta mostrando la vicenda libanese.

Ciò che interessa, però, è la rapidità di espansione e la durata di quel fenomeno originario che riuscì a trasformare comunità disperse in un popolo di grande cultura e civiltà.

Il segreto? A mio avviso, la semplicità del messaggio che incontrò lo sperdimento di masse umane disorganizzate e la volontà di un gruppo di uomini di offrire attraverso quel messaggio una risposta alle ansie e ai bisogni di uomini semplici.

E’ mia convinzione che oggi si possa provare a ripetere un simile processo che liberi eguale energia, travolgente e ineludibile, a condizione che tutto ruoti attorno a un’idea semplice, condivisibile e che dia risposta a tutti quelli che soffrono il disagio della povertà culturale economica e sociale: un’idea che faccia piazza pulita di rapporti di dipendenza fondati su amicizia, familismi, appartenenze di partito, su clan, localismi, nazionalismi (tutti concetti che dividono e separano). L’idea perno su cui deve ruotare tutta la costruzione di una nuova società capace di liberare risorse e favorire i progetti di vita di quante più persone possibile, nella sicurezza e nella cooperazione pacifica, non può che essere il concetto di cittadino, di colui che deriva i suoi diritti dal rispetto di regole, decise democraticamente e che devono valere per tutti in determinato territorio: ciascuno tutelato nei suoi diritti a prescindere da provenienze, razza, sesso, religione, appartenenze familiari o di qualsiasi altro tipo.

Oggi non è così e si pensa di poter aggirare le regole attivando amicizie e appartenenze e rinunciando a esercitare la pratica politica per modificare quanto di sbagliate o di vecchio dimostra di non funzionare, rinunciando altresì a pretendere un efficace sistema di controlli e di tutela pubblica. In questo lassismo riemerge il modello mafioso e ritorna, inestirpabile, la corruzione: l’inefficienza della Sicilia o la terribile esplosione di Beirut mostrano a quali estremi conduce la rinuncia a una democrazia attiva e partecipata fondata sul diritto e sui doveri del cittadino.

 

Ma chi dovrebbe avviare questa battaglia culturale per affermare la prevalenza del diritto di cittadinanza su ogni altro vincolo identitario? Sicuramente un nucleo di cittadini consapevoli, ben determinati a dare battaglia senza tregua per questa prospettiva laica. Un nucleo dentro una rete di relazioni con tutti i gruppi che in questi anni con le motivazioni più diverse hanno difeso i nostri principi costituzionali pur interrogandosi sui limiti della nostra organizzazione amministrativa di fronte ai grandi problemi della globalizzazione e della modernità.

E tuttavia non basta la volontà e la determinazione di pochi. Prima possibile servirà che questa battaglia innervi una forza organizzata di massa, che diventi partito o trasformi qualcuno degli esistenti, liberando lo scenario da quell’elettoralismo devastante che ha deformato la scelta del personale politico, la qualità della rappresentanza e la stessa attendibilità della democrazia.

Può un nucleo on-line, una rivista del web, o un cartello di queste realtà diventare il promotore di questa rivoluzione laica? Sono convinto di sì ma bisogna incominciare subito.

 

Palermo, agosto 2020

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