di VITO MANCUSO
L a paura è l’emozione negativa che sorge d’istinto dentro di noi
a seguito delle informazioni di pericolo captate dalla mente. Essa genera in
chi la prova tre possibili reazioni: 1) la difesa e la conseguente
aggressività; 2) la fuga; 3) l’immobilizzarsi come pietrificati. Questo è
quello che pensiamo noi della paura, ma per gli antichi essa era molto di più:
era un dio o era mandata da Dio, e per questo occorreva averne rispetto,
riverenza, «timore e tremore» ammoniva Paolo di Tarso. Si legge nell’Iliade: «Ares
massacratore marcia alla guerra, e lo segue suo figlio, Phobos intrepido e
forte, che incute paura persino al guerriero più impavido» (XIII, 298-300).
Phobos, da cui fobìa, è la personificazione della nostra paura, del nostro
terrore. In un’iscrizione votiva di Selinunte del V secolo a.C.
egli è posto subito dopo Zeus e prima di tutti gli altri dèi, mentre nella
bellicosa Sparta vi era persino un tempio per il dio della paura.
Se poi consideriamo l’altra sorgente della cultura occidentale e
apriamo la Bibbia ebraica, quasi in ogni pagina ci imbattiamo in un’atmosfera
segnata dalla paura, termine che ricorre spesso nella Bibbia e che unito ai
sinonimi come timore, terrore, spavento, angoscia, ansia, sbigottimento,
preoccupazione, inquietudine, orrore, arriva a rappresentare una costante
incombente. Non solo: nella Bibbia la paura è tanto maggiore, quanto più
prossima è la presenza di Dio.
Così per esempio il libro della Genesi fa dire a Giacobbe: «Certo, il Signore
è in questo luogo e io non lo sapevo», annotando che poi Giacobbe «ebbe paura e
disse: Quanto è terribile questo luogo!» (Genesi 28,16-17). La paura è un
ingrediente indispensabile di ogni teofania, non a caso le prime parole rivolte
agli umani sono il più delle volte “non temere”, come disse l’arcangelo
Gabriele a Maria, parole che hanno senso solo se prima c’è appunto, istintiva,
la paura.
Ma cosa vuol dire che la paura è un dio, come afferma il politeismo greco,
o che è strettamente associata alla presenza divina, come afferma il monoteismo
ebraico? Vuol dire che essa è più potente di noi umani, e che però al contempo
ci attrae.
Se fosse solo più potente senza esercitare attrazione sarebbe un mostro, un
titano, un demonio, non un dio. Invece no, essa ci spaventa e insieme ci
attrae, secondo la dialettica del divino individuata un secolo fa da Rudolf
Otto: mysterium tremendum e mysterium fascinans,
cioè qualcosa di più grande di fronte a cui tremiamo e di cui al contempo
subiamo il fascino. Quando si parla di “divino”, ben prima di tutte le
discussioni teoriche sull’esistenza o non esistenza di Dio, è esattamente
questa esperienza contraddittoria che si porta al pensiero. Perché una cosa è
sicura: Dio può anche non esistere, ma che esista il divino (l’immenso mistero
dell’essere di cui siamo fatti che ci fa vivere e morire) è fuori discussione.
Lo manifesta la paura (Phobos), così come l’amore (Afrodite), la guerra (Ares),
la natura selvaggia (Artemide), il potere (Zeus), l’arte (Apollo), la medicina
(Asclepio) e tutte le più vive esperienze vitali.
Noi della paura siamo spaventati, ma al contempo ne siamo affascinati: non
si spiegherebbero altrimenti le produzioni culturali e di intrattenimento che
fanno leva su questa emozione, a partire dai thriller e dall’horror, e prima
ancora dalle antiche favole che tanto spavento volevano suscitare nei bambini
con la strega, la regina cattiva, il lupo, l’orco e tanta violenza. Forse
anche questi giorni così difficili all’ombra cupa del coronavirus contengono
una lama di fascino ambiguo, per cui abbiamo sì tutti paura ma al contempo
proviamo una specie di tensione emotiva, per non dire eccitazione.
Siamo al cospetto della carica rivelativa contenuta in quelle esperienze di
confine che Jaspers denominava “situazioni limite”. Ma se la paura è un dio,
come ci si comporta al cospetto di un dio? Il dio, anzitutto, lo si teme. E in
questo timore, che non è terrore ma senso delle dimensioni, si acquisisce
sapienza.
Sta scritto infatti: “Principio della sapienza è il timore del Signore”
(Proverbi 9,10). Sull’architrave del tempio di Delfi era incisa la massima che
tanto impressionò Socrate: “Conosci te stesso”. Sembra che in origine si
trattasse di un ammonimento a ogni fedele perché non avesse mai a dimenticare
la sua condizione mortale: conosci te stesso, cioè la tua fragilità, il tuo
essere destinato a finire. A partire da Socrate la massima venne però intesa
come un’esortazione ad approfondire la nostra natura, questo mistero di un
pezzo di materia che si scopre radicalmente diverso da ogni altro pezzo di
materia e da ogni altro vivente in quanto abitato da vita interiore, emozioni,
sentimenti, sapere, ideali. Così l’ammonimento delfico Conosci te stesso
prese a trasformarsi in una domanda: Io, chi sono? In quanto essere umano,
cosa sono? La risposta che diede Socrate e con lui l’Occidente fu: tu sei la
tua anima. Il termine “anima” dice la nostra interiorità, quella stessa
dimensione che ci fa provare paura, ma anche passione, fremito, amore. Si
potrebbe anche dire che noi siamo il nostro cuore. Ed è proprio dal termine
latino per cuore, cor, che viene “coraggio”, l’antidoto della paura.
Coraggio significa azione del cuore. Esso non è il contrario della paura,
perché la suppone; esso è il superamento della paura, perché la vince. Senza
paura non si può avere coraggio, si ha temerarietà, ovvero sconsideratezza e
ignoranza perché si ignorano le preziose informazioni che provengono
dall’emozione della paura. È solo avendo paura che si può generare l’azione del
cuore detta coraggio.
Il contatto con il pericolo ci può far comprendere chi siamo: siamo una
mente impaurita, è vero, ma possiamo essere anche una mente che discerne tale
paura e legge le sue informazioni, e giungere a essere un cuore che supera la
paura mediante il coraggio, cioè l’azione disciplinata e intelligente che non
ignora i pericoli della realtà ma proprio per questo li sa riconoscere e
sconfiggere.
La Repubblica, 27 febbraio 2020
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