martedì, dicembre 18, 2018

Quando il boss fa volontariato


di AUGUSTO CAVADI 
La questione di estrema attualità se, e come, accogliere nelle associazioni di volontariato (cattoliche e non) persone che – dopo un periodo di detenzione - devono svolgere servizi di utilità sociale non ammette soluzioni facili. Ogni caso è un caso a sé e solo per pigrizia mentale e etica si può rispondere, sloganisticamente, con un “sempre” e con un “mai”. Ciò che le associazioni possono, e dovrebbero, fare è darsi una “carta” di criteri comuni in modo da offrire agli ex-detenuti (specie se condannati per reati di mafia) un’immagine per quanto possibile compatta, evitando la rischiosa differenziazione fra “lassisti” e “rigoristi”.

  Il primo di questi possibili “criteri” potrebbe essere la sconfessione pubblica del proprio passato. Se chiedo di fare volontariato in un gruppo il mio primo passo dovrebbe consistere in un’auto-presentazione sulle ragioni che mi inducono a questa scelta: l’esperienza pluridecennale di formazione degli operatori ci conferma che già in questo primo contatto non è facile mentire. Certo tutti possiamo tirar fuori capacità istrionesche, ma per un ex-affiliato di mafia (vero o presunto ex) non è per nulla facile dichiarare in una pubblica assemblea di soci che rinnega la propria appartenenza a una cosca.
   Un secondo criterio dovrebbe prevedere l’assoluto divieto di collaborazione, almeno nelle ore di volontariato, fra due ex-detenuti. Ciò sia per ridurre le possibilità di condizionamento psicologico reciproco sia per evitare che, agli occhi di terzi, si crei una qualsiasi forma di complicità fra soggetti provenienti da esperienze negative comuni (specie se si tratta di persone appartenenti a sodalizi di stampo mafioso).
  Un terzo criterio potrebbe consistere nell’affiancamento, per un congruo periodo di tempo, del neo-volontario con un operatore che già da anni lavora in quel determinato settore. Dal punto di vista giuridico-giudiziario, infatti, si può misurare il rispetto formale delle regole (puntualità all’inizio e al termine delle ore di servizio; comportamento corretto nei confronti dei colleghi e degli utenti etc.), ma un’associazione di volontariato, come e in un certo senso più ancora di un’istituzione pubblica o privata, deve guardare al merito, ai contenuti, alla qualità morale dell’attività che viene prestata. Soprattutto quando si tratta di avere contatti con bambini e ragazzi; di studiare insieme a loro commentando la storia e i fatti di cronaca; di testimoniare un certo modo di guardare la vita…è essenziale capire che cosa un ex-detenuto sta comunicando agli adolescenti che, pur in buona fede (ovviamente nei casi migliori), intende accompagnare nello studio, nello sport, nell’avviamento al lavoro. 
    Ma chi ci assicura che l’ipotetico volontario “accompagnatore” abbia la maturità intellettuale e pedagogica per fare bene il proprio lavoro e per aiutare l’ipotetico volontario “accompagnato” a farlo bene? Qui si apre una delle ferite più eclatanti di tanto associazionismo, cattolico e laico, italiano (soprattutto, bisogna amaramente riconoscere, da Roma in giù): la mancanza, totale o quasi, di formazione iniziale e in itinere. Se una persona mostra l’intenzione di dare una mano agli altri, questo viene ritenuto già sufficiente per arruolarla: se poi è analfabeta, dal punto di vista della psicologia o della comunicazione o dell’empatia, ciò viene ritenuto irrilevante. Una ventina di anni fa, al Centro “Pedro Arrupe” di Palermo, col direttore dell’epoca, Gianni Di Gennaro, decidemmo di affiancare, alla Scuola di formazione politica, anche una Scuola di formazione al volontariato. Dopo alcuni anni, le richieste scemarono: le associazioni cittadine continuavano ad accettare nuovi volontari, ma questi non avvertivano nessuna esigenza di preparazione né storico-sociologica né psico-pedagogica. Da qui un quarto “criterio”: un ex-detenuto che chieda di prestare opera volontaria presso un’organizzazione deve accettare di partecipare attivamente, con gli altri associati, a incontri periodici di aggiornamento professionale (relativamente al settore in cui opera) e di supervisione della sua attività. Un’associazione che non preveda questi momenti di verifica, di approfondimento, di interazione fra i componenti delle squadre farebbe bene a chiudere i battenti e, in ogni caso, a non accettare nel suo seno inserimenti di soggetti problematici.
 Una volta stabiliti e rispettati questi criteri – e altri simili che saranno suggeriti da chi ha esperienza sul campo – si potrà tentare la difficile scommessa del reinserimento sociale di concittadini macchiatisi di reati gravi e gravissimi. Con fiducia aprioristica sulle risorse di riabilitazione di qualsiasi essere umano, ma con la lucida consapevolezza che tali risorse dipendono dalla libera autodeterminazione di ciascuno. Per quanto possa essere amaro ammetterlo, la libertà è una lama a doppio taglio. E le possibilità che venga esercitata in una direzione riparativa e costruttiva equivalgono, esattamente, alle possibilità che venga attuata a danno di sé stessi e degli altri.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
La Repubblica-Palermo, 15. 12.2018


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