martedì, dicembre 11, 2018

Boss spietati, ma volontari in chiesa. Ammetterli o no? Divisi i parroci di Palermo

DI SALVO PALAZZOLO
Il caso di Settimo Mineo fa discutere la Chiesa nel capoluogo. I capiclan in cambio ottengono un certificato di buona condotta
È scoppiata una gran voglia di volontariato fra i boss di Cosa nostra scarcerati. Il capo della Cupola, Settimo Mineo, faceva il doposcuola ai bambini di Ballarò, nella chiesetta di San Giovanni Decollato. Prima di lui, anche Giuseppe Guttadauro, u dutturi, l’ex aiuto primario della Chirurgia del Civico diventato capomafia di Brancaccio: in un’associazione di Roma, dove si è trasferito.
Il reuccio di Porta Nuova, Alessandro D’Ambrogio, aveva invece scelto di impegnarsi nella missione Speranza e Carità di Biagio Conte e si era fatto assegnare alla ronda serale di assistenza ai barboni, così il giudice gli aveva concesso di rientrare a casa alle 22. Ma, poi, i carabinieri l’hanno riarrestato, perché non aveva mai smesso di guidare il clan. E anche Settimo Mineo è ritornato in cella.
Don Cosimo Scordato, il sacerdote che aveva ammesso il boss di Pagliarelli al volontariato, è amareggiato non poco per quanto è accaduto, dall’altare ha ringraziato i carabinieri per il blitz. «Francamente, pensavo che Mineo volesse iniziare una vita nuova — dice oggi — Ogni domenica lo vedevo anche a messa, assieme alla moglie. La messa in cui io ribadisco: “Signore liberaci da ogni male, da tutte le mafie”».

Ma, probabilmente, Mineo era interessato solo ad avere una lettera che attestasse la sua buona condotta, dato che era assegnato ai servizi sociali. «Io quella lettera la scrissi — spiega don Cosimo, uno dei simboli dell’impegno della Chiesa contro la mafia — perché effettivamente Mineo aveva dimostrato di impegnarsi nella nostra associazione. Pensavo davvero avesse preso le distanze dal mondo di Cosa nostra, ma alla luce di quanto è accaduto, possiamo dire che non era così».

Ora il caso Mineo apre il dibattito. «È giusto dare un’altra possibilità a una persona che ha sbagliato, ma bisogna evitare di farsi strumentalizzare, con i mafiosi il rischio è alto», dice il redentorista Nino Fasullo, direttore della Rivista Segno, che auspica un «confronto, il più ampio possibile, all’interno della Chiesa, su questi temi di grande attualità». Perché gli scarcerati di mafia sono ormai diventati il vero tema sociale, sono 130 solo a Palermo, 300 compresi quelli di Agrigento e Trapani. «Sono persone che hanno offeso Dio e la città, non possiamo dimenticare cosa hanno fatto, non possiamo dimenticare il sangue che è stato versato». Padre Fasullo è preoccupato per la «voglia di rimozione del problema mafia che sembra correre in città, come se fosse una questione ormai solo del passato». Che fare allora se un mafioso scarcerato dice di volersi impegnare in un progetto di riscatto sociale? Il direttore della Rivista Segno invita a valutare caso per caso, con prudenza, e a coinvolgere tutta la comunità parrocchiale nelle scelte.

«Una possibilità va data — ribadisce don Antonio Guglielmi, il parroco di Santa Lucia al Borgo Vecchio — ma bisogna monitorare queste persone costantemente, per verificare che svolgano effettivamente il servizio che dicono di voler fare». Non è davvero facile il lavoro dei parroci nelle frontiere di Palermo, Borgo Vecchio è una di queste. «La speranza non la perdo mai — dice don Antonio — però i cambiamenti non sono immediati, ma a lunga scadenza». Nella frontiera di Brancaccio, dove fu ucciso don Pino Puglisi, ci sono alcuni detenuti che stanno scontando la semilibertà al Centro Padre nostro, così come deciso da una convenzione con l’Ufficio esecuzione del tribunale. «Svolgono delle attività un ergastolano, che ha commesso un delitto non di mafia, e un condannato a 18 anni per traffico di droga», spiega Maurizio Artale, il presidente del Centro. «Hanno fatto un percorso lungo con noi. Per due anni, hanno lavorato esclusivamente in un terreno, con zappa, pala e rastrello. Con questo tipo di attività, all’inizio, te ne accorgi subito se sono sinceramente intenzionati a costruire qualcosa. E poi chiediamo loro pure di parlare ai nostri giovani, devono rendere testimonianza del percorso che dicono di voler fare».

La Repubblica Palermo, 11 dicembre 2018

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