mercoledì, maggio 10, 2017

La sfida della sicurezza. Minniti: “Difendo chi ha paura, ma a sparare sia solo lo Stato e sui migranti via alle ispezioni”

Il ministro dell’Interno: “Combattere l’illegalità è di sinistra. Ho disposto controlli in 2mila centri per rifugiati e per fermare le infiltrazioni i nuovi contratti di affidamento saranno scritti dall’Anac”
ROMA - «IL lavoro che ho cominciato al Viminale quattro mesi fa può piacere o meno. Ma è figlio di un metodo, di un disegno, e di una certezza. Che sulle questioni della nostra sicurezza, si chiamino emergenza migranti, terrorismo, reati predatori, incolumità e decoro urbano, legittima difesa, non si giocano le prossime elezioni politiche. Ma il futuro e la qualità della nostra democrazia. La tenuta del tessuto connettivo del Paese. A chi mi accusa di essere di destra perché lotto per governare il senso di paura e l’illegalità, dico che lo faccio non perché sono il ministro dell’Interno, ma perché sono un uomo di sinistra. Che si sente a posto con la sua storia. E da uomo di sinistra, ad esempio, ho disposto in queste ore 2.130 ispezioni ministeriali nei centri di accoglienza per migranti. Anche quelli attivati in via d’urgenza. Perché solo chi è credibile nella repressione dell’illegalità, anche domestica, può essere creduto quando pretende di affermare legalità». Per due ore, ospite del Forum nella redazione di Repubblica, il ministro dell’Interno Marco Minniti affronta senza diplomazie i nodi di un’agenda politica impiccata da mesi alle parole d’ordine di una campagna politica giocata sui temi della sicurezza. E prova a rovesciare la narrazione della destra leghista e del populismo pentastellato.

Ministro, cominciamo dalla cronaca di queste settimane. Dai migranti. La vicenda delle sospette collusioni tra Ong e trafficanti di uomini ha riproposto un canovaccio che, all’osso, suona così: «L’Italia è il Paese che fa servizio taxi sotto costa per i boat people. Il Paese in cui si arriva per poi sparire nel nulla. Dove chi deve essere rimpatriato non lo è e le mafie si arricchiscono e riciclano con il business dell’accoglienza».
«Il populismo vive e ingrassa della paura del Paese. E per tenere viva la paura è necessario coltivare un’ossessione. Cosa che è possibile fare raccontando agli italiani come sia semplice ciò che non lo è ed elidendo dal discorso pubblico quello che non fa comodo dire e dirsi».
Cosa verrebbe taciuto?
«Provo ad andare con ordine. La partita dei flussi migratori si gioca fuori dai confini nazionali e non riguarda o coinvolge solo l’Italia. Ha a che fare con l’Europa e l’Africa. Oggi e per i prossimi 15 anni. Io avrei potuto fare e dire, e non sarei stato il primo, che il problema è ciò che deve fare l’Europa. E invece ho deciso di dimostrare che l’Italia è in grado di fare. E ora, forte di questo, posso chiedere che l’Europa si assuma le sue responsabilità. Mi spiego. I dati indicano che, nel 2016, i flussi di migranti della rotta balcanica occidentale sono diminuiti dell’86 per cento, quelli della rotta balcanica orientale del 72 e, al contrario, quelli del Mediterraneo centrale aumentati del 18. Questo significa che lo sforzo finanziario assunto dall’Europa con la Turchia, 6 miliardi di euro, ha consentito di arrestare di fatto il flusso dai Balcani e che la partita si gioca dunque di fronte alle nostre coste. Bene. C’è un ulteriore dato che indica come il 90 per cento dei flussi del Mediterraneo arrivi dalla Libia. E questo consente di focalizzare ancora di più l’origine del problema. E allora, io dico che, oltre ad aver lavorato per la stabilizzazione politica di quel Paese, in quattro mesi, abbiamo firmato un accordo con il governo libico e che, entro fine giugno, la Libia avrà a disposizione le 10 motovedette che ci siamo impegnati a consegnarle — due sono già operative da fine aprile — con equipaggi già formati e con cui pattugliare le sue acque territoriali. Ricordo anche che, a Roma, le tribù del sud del Sahara, quelle in grado di presidiare il traffico di uomini diretto a Sabrata e da lì alle nostre coste, hanno firmato una pace che consentirà di rendere quel corridoio presidiabile. Ricordo infine che, nei giorni scorsi, a chiusura di questo circuito virtuoso, la Commissione europea ha stanziato 90 milioni di euro per la costituzione di campi di accoglienza sul territorio libico sotto la responsabilità dell’Unhcr e dello Iom, il che, oltre a impedire la vergogna di campi di concentramento gestiti da scafisti, renderà più agevoli le procedure di rimpatrio volontario assistito. Questo per spiegare cosa intendo quando parlo di metodo. E perché dico che oggi l’Italia è più forte e autorevole nel chiedere all’Europa uno sforzo».
Rispettando ad esempio l’accordo disatteso sui ricollocamenti?
«A dire il vero, abbiamo raggiunto ormai i 5.400 ricollocamenti. E ho personalmente siglato un accordo con la Germania per un ricollocamento di circa 500 migranti al mese. Il problema è un altro. Quell’accordo è diventato inutile semplicemente perché è “invecchiato”. Mi spiego. Nel 2016, le nazionalità dei migranti erano principalmente irachena, siriana e somala. Oggi quei gruppi etnici non sono più presenti nei flussi e quindi c’è poco da ricollocare. Oggi, le prime tre etnie di migranti provengono da Nigeria, Bangladesh e Guinea. Quindi, ad esempio, è necessario che l’Europa aggiorni i suoi profili etnici per il ricollocamento. Ed è necessario che tutti comprendano la portata globale del fenomeno. Perché è evidente che chi, per 10 mila dollari, parte dal Bangladesh, raggiunge in aereo il Cairo o Istanbul e di lì viene preso dai carovanieri per essere condotto prima nel sud del Sahara e poi, a Sabrata e di lì sulle nostre coste con barconi, non sta sfuggendo a una guerra. È chiaro che, legittimamente, cerca opportunità di vita migliori e si affida all’unica industria sopravvissuta in Libia. Quella dei trafficanti di uomini. Ora, il mio dovere democratico, sottolineo, democratico è chiudere quell’industria, toglierle agibilità lungo la rotta sahriana e punti di appoggio in Libia. Perché solo in questo modo, dando dimostrazione di governare l’illegalità, potrò allora parlare di accoglienza nel solo modo che conosco».
Quale?
«Coniugandola con integrazione. Perché chi oggi pensa che i due termini, accoglienza e integrazione, non debbano andare di conserva e non dipendano l’uno dall’altro non mette a rischio i destini della sinistra in Italia, mette a rischio il futuro del Paese. Se io sono credibile su questo, sono credibile quando, come ho fatto in queste ore, chiedo 2.130 ispezioni nei centri di accoglienza e quando firmo accordi con l’Anci per l’accoglienza diffusa o quando ottengo il voto del Parlamento sul decreto sicurezza».
Converrà che sui centri di accoglienza c’è un problema di infiltrazione mafiosa.
«È il motivo per cui ho disposto le ispezioni ed è il motivo per cui, con la collaborazione dell’Autorità nazionale anticorruzione, abbiamo predisposto un nuovo tipo di contratto unico che prevede tre novità. La fine del gestore unico, la separazione dei lotti e l’aumento dei poteri ispettivi del ministro dell’Interno».
Si obietta, è stato fatto anche dalle colonne di “Repubblica” da Roberto Saviano, che il segno complessivo di queste politiche è una concessione alla pancia del Paese. Alle parole d’ordine della destra.
«Vi racconto un episodio. Nel ’99, ero un giovane sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, andai a Bologna per un’iniziativa politica sulla sicurezza. Arrivai armato di statistiche non molto diverse da quelle che abbiamo oggi e che indicavano i delitti cosiddetti predatori in calo. E conclusi spiegando che non vedevo dove fosse il problema. Un vecchio compagno si alzò dalla platea e mi disse: “Se vieni qui a raccontarci le statistiche non hai capito niente di noi, di Bologna e del Paese”. Per inciso, a Bologna vinse Guazzaloca e io quella lezione non l’ho dimenticata. E suona così. Io non posso combattere la paura biasimando chi ha paura. Io devo aiutarlo a liberarsi dalla paura. La sicurezza è un sentire. E la cosa più impegnativa, dunque, è il sentirsi, che è qualcosa di vicino al sentimento. Dove si ragiona con le statistiche non c’è sentimento. Io sto con chi prende l’autobus tutte le mattine. Io devo riuscire a sentire quello che prova lui. Non chi ha tre auto di scorta come me. La sicurezza è un problema che colpisce i deboli. Perché i ricchi la sicurezza se la comprano. È di destra stare con i più deboli? È di destra coinvolgere i sindaci nell’accoglienza dei migranti, nella predisposizione del controllo del territorio, mettendoli nelle condizioni di allontanare dall’ingresso di una scuola chi ha precedenti per spaccio? È di destra portare da quattro a tre gradi di giudizio il procedimento per il riconoscimento dell’asilo per ragioni umanitarie per dare tempi certi al diritto di chiede di essere accolto e alla sicurezza di chi accoglie? Io, da uomo di sinistra quale sono e ritengo di essere, ho il problema di includere. Fosse anche un solo cittadino. Ho l’obbligo di non abbandonarlo alla paura, che è il sentimento che distrugge prima una democrazia e poi le ragioni dello stare insieme».
È una legge di sinistra anche quella votata alla Camera sulla legittima difesa?
Chi l’ha votata non si sarà lasciato prendere troppo dal “sentimento”?
«Io penso sia opportuno, come accadrà, che il Senato lavori a correggere quel testo perché deve essere chiaro che la legge deve tenere insieme due punti cruciali. Nessuna vittima di un reato sconvolgente come una rapina in casa deve essere lasciato solo o sentirsi solo ed è nostro obbligo tutelarne l’incolumità. Ma deve essere altrettanto chiaro che siamo dentro una democrazia. E in una democrazia, il contratto sociale prevede che la difesa armata della democrazia spetti ai corpi dello Stato e non al singolo».
Tornando ai migranti e alla questione delle Ong. Non crede che quanto emerso, a maggior ragione alla luce di quanto lei dice dell’industria dei trafficanti di uomini, non sia opportuno un ripensamento quantomeno delle modalità di soccorso al limite delle acque territoriali libiche?
«Come dicevo, dalla fine di giugno, la Libia disporrà di 10 motovedette. Dunque di una Guardia Costiera degna di questo nome che le darà piena competenza sulle sue acque interne. Detto questo, mi sembra che i fatti diano ragione di quanto ho detto in Parlamento il 27 aprile e di una linea che intendo mantenere. La dico in due parole. Un Paese serio non ha paura di affrontare nessun problema. A maggior ragione se interpella il lavoro cruciale e delicato delle Ong in campo umanitario. Ma un Paese serio aspetta di conoscere dati certi. Dunque, l’esito delle indagini, parlamentari e della magistratura. E solo all’esito di questi, decide se e su cosa intervenire».

La Repubblica, 10 maggio 2017

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