lunedì, gennaio 24, 2022

IL CAPO DELLO STATO. Silenzioso e vincente. A Palermo il lungo addio del “grigio” Mattarella

FRANCESCO MERLO

Pover’uomo, ancora non gli riesce di “sbirciare” nel futuro. Più lo applaudono e più si spaventa che lo rinchiudano di nuovo al Quirinale, anche se adesso Mattarella domina il palazzo che sette anni fa gli mise soggezione quando temeva di fare la fine del vicerè Casimiro che viveva in una sola stanza “a sognare e a temere il crollo della luna”. 

La paura del suo doppio è così tanta che per la prima volta in sette anni si è persino deciso a mostrare le sue emozioni con una raffica diultima verba che ovviamente non bastano mai, un affollato catalogo di congedi che più sono definitivi e più suonano provvisori. 

In questo lungo addio non consumato una volta esibisce come suggello finale le quattro stanze di Palazzo Giustiniani, “l’ufficio che era stato di Schifani”, un’altra volta l’appartamento in affitto a Porta Pinciana con quei giornalisti capitati per caso – toh, chi si vede - nel teatrino di “Sergio-Totò cerca casa”. Sabato scorso il portavoce Giovanni Grasso ha postato su Twitter la foto degli scatoloni come punto di non ritorno. 

E tutti questi dettagli minori di “verità”, anche la plateale “fuga” a Palermo, la Messa con gli applausi ieri mattina nel comando dei Carabinieri e l’annuncio che oggi pomeriggio seguirà le votazioni “da remoto”, stridono con il carattere schivo che in lui è “il senso della storia”, il moroteismo dolente che in questi sette anni gli ha sempre permesso di “non fare per fare”. Per esempio, dopo il referendum, quando non sciolse le Camere provocando le ire di Matteo Renzi che era stato il suo king maker e perciò non gli ha parlato per tre anni. 

«C’è della durezza in lui», diceva Cossiga, durezza come necessità morale, il “dolorismo siciliano” che gli valse il soprannome di “Martirello”. Ma è la risorsa appunto del “non fare per fare” che ha lentamente ridisegnato lo stile Italia, con il governo Gentiloni per cominciare, che fece dimenticare i modi spavaldi e chiassosi di Matteo Renzi senza mai tradirlo. Ricordate? Il grigio Mattarella si riprodusse nel grigio Gentiloni rovesciando una delle più vili e veloci abitudini nazionali, il voltafaccia. 

A piccoli passi Mattarella intraprese la sua lunga marcia contro il populismo imponendo all’Italia la prudenza e appunto il grigio come valore. Ha affrontato e vinto l’Italia del piacione, del gradasso, del Brancaleone, stando sempre sottovento e col profilo basso anche nella vita privata. Ben scavato vecchia talpa. 

Quando dunque leggete di questo e di quello che vanno (andavano) regolarmente a cena al Quirinale, non credetegli. Mattarella non riceve, se non raramente. La messa gliela officiano al Quirinale, la domenica e non tutti i giorni che era l’abitudine dei peccatori incalliti della Prima Repubblica, a partire da Andreotti. Ogni tanto viene pure qualche vescovo come Paolo Gillett, peresempio, che di anni ne ha 92. 

Il presidente ama mangiare da solo alle 13.30 in punto, poi si concede la pennichella come ritorno alla natura, e alle 16.30 torna in ufficio dove non ci sono le classiche e inutili riunioni a ore fisse. Allora, come per caso, “passano” di lì i formidabili quattro del cerchio magico: Giovanni Grasso, Gianfranco Astori, che è il principale ghostwriter, Saverio Garofani e il pisano Simone Guerrini, “lo scopritore” di Enrico Letta di cui fu compagno di tutto e con cui anche a distanza non ha smesso mai di dialogare, perché ci sono appunto i ricordi che al loro posto si mettono a dialogare. Erano considerati i perbenisti di centro, boy scout e Azione Cattolica, quelli che Zucchero pensava si potessero salvare “solo con una sana e consapevole libidine”. Ma forse, all’insaputa di Zucchero, loro ce l’avevano. 

Mattarella, per tutta la banda, è“la scuola di Palermo”, Dio e “L’Ordinamento giuridico”, da Santi Romano a Pietro Virga di cui fu allievo e che di lui appunto diceva: «Sergio si affretta sempre, ma lentamente». Ma ora Palermo, per quel poco che ci è andato, rimprovera a Mattarella di avere abolito la vita mondana un po’ trascurando persino i vecchi amici di sempre: Ciccio Crescimanno, l’avvocato, Guido Corso, il professore di Diritto, e Salvo Butera, il consigliere economico del fratello Piersanti. Di sicuro il presidente non si fa vedere, protegge la vita privata come una cassetta di sicurezza. Solo, ogni tanto, capitava che nelle chiese San Francesco di Paola, Sant’Espedito, San Michele Arcangelo, Mattarella “si infilasse” a messa ma rimanendo lì, in fondo, sempre in piedi, rigido ma rassicurante, come durante il messaggio di fine anno. E quando alla fine cominciava il mormorio, “hai visto, c’è Mattarella”, lui già se n’era andato. Eppure sin da giovane è capace di star fermo e in silenzio ad ascoltare, al punto che, qualche volta, ricorda un personaggio di Arbore (ci siamo tutti in quelle parodie) : “il pensatore quiz” (Giovanni Rebecchini), quello con tanti capelli: “chi indovina cosa pensa il pensatore?”, chiedeva Arbore. 

Ecco, benché Mattarella ripeta spesso che “la politica non si fa con sentimenti e risentimenti, ma con la cassetta degli attrezzi” in realtà è con il pudore, il riserbo e la pazienza dell’arrostito che riuscì a superare senza una parola né un gesto di stizza l’aggressione dell’impeachment con cui volevano dannarlo innanzitutto Giorgia Meloni - e chissà perché nessuno ricorda che fu la prima - e, a ruota, Luigi Di Maio che, almeno, poi gli chiese scusa. Il grigio elevato a Ragion di Stato ha liberato l’Italia, nella legislatura non ancora finita, da una nomenklatura eversiva filocinese e antieuropea e l’ha affidata al governo atlantista e filoeuropeo di Mario Draghi. E basta chiudere gli occhi per rivedere il primo giuramento, quello degli spergiuri, quando Salvini, ministro degli Interni, goffamente compiaciuto, chiamava il Quirinale “la Bastiglia”. E il cerimoniale accoglieva mamme e zie (in abito lungo) dei sans-culottes che per la prima volta indossavano, tutti, abito scuro e cravatta: destre populiste e vaffa sembravano alla prova generale del petto in fuori e del passo cadenzato. Ma c’era Matterella, che riceveva il grazie di Paolo Savona, corda pazza accademica del leghismo, pur avendolo dirottato alle Politiche comunitarie. Savona ringraziava perché Salvini lo rassicurava ripetendogli che sarebbe stato lui il vero ministro dell’Economia: «Hai l’autorità che non ha nessuno». E certamente non ce l’aveva il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che era già una figura drammatica. 

Si svela così, incollando l’occhio allo specchietto retrovisore, il segreto che in sette anni ha fatto del Martirello il più amato dagli italiani. Rassicurante nel suo esserci senza starci, è andato molto più in là del sopire e tacere democristiano del Conte Zio. Mattarella è stato lo zen di tenace concetto, Oriente e Sicilia, la serenità nel manicomio, la forza cheta del vecchio saggio che ancora a fine anno ha detto in piedi quel poco e niente che c’era da dire, con la retorica necessaria ma breve, mentre dietro di lui anche le magnifiche palme sembravano aver scelto di non dare più datteri ma finalmente banane, che solo per i nostalgici degli Inti Illimani rimandano alla Repubblica di Woody Allen, e sono invece il simbolo della dignità, verticali e curve come Mattarella. Proprio perché il presidente non ha mai fatto parte della turba dell’“ora ve lo faccio vedere io” e dei salvatori della patria, ha davvero salvato la patria. Tornerà finalmente a fare quello che avrebbe sempre voluto fare, stare zitto, ora che si allontana, malinconico e vincente, come l’Humphrey Bogart di Casablanca. 

La Repubblica, 25 gennaio 2022

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