mercoledì, febbraio 06, 2019

Philippe San Marco e la storia di Villafrati tra locale e globale


La Prefazione di Giuseppe Oddo
A portarmi sulle orme di Philippe San Marco fu la lettura del suo libro, L’eredità Siciliana: diario intimo di una ricerca genealogica, pubblicato in italiano, con la prefazione di Giovanna Fiume, nel 2013 dall’Istituto Poligrafico Europeo, il mio editore. L’opera racconta una sua lunga e paziente indagine archivistica, intrapresa dall’autore (come terapia personale volta a superare una grave crisi d’identità connessa alla sua militanza politica nel Partito socialista) per capire chi fosse in realtà il suo bisnonno Luigi San Marco. Dopo diversi anni di ricerche in vari archivi pubblici acclarò che Luigi era nato a Palermo nel 1832 da genitori ignoti: della madre non riuscì a trovare nessuna traccia; ma molte circostanze, nessuna delle quali decisiva, lasciavano credere che il padre potesse essere il conte di San Marco, principe di Mirto, barone di Villafrati, il mio paese. La notizia era per me così ghiotta che cercai subito di sapere qualcosa di più rispetto a quanto avevo letto.

Appresi così che Philippe, già alto funzionario dell’amministrazione municipale di Marsiglia, deputato socialista all’Assemblea Nazionale di Francia, professore associato di geografia urbana e, per qualche tempo, anche direttore dei corsi di geopolitica dell’École Normale Supérieure di Parigi, disponeva ormai da alcuni anni di un pied-à-terre nel centro storico di Palermo (a pochi passi dal Palazzo Mirto e dall’Archivio dello Stato), dove soggiornava periodicamente assieme alla compagna per non meglio precisate ragioni di studio. Non fu perciò difficile incontrarlo.

E realizzai che la sua compagna era l’artista franco-svizzera Jacquiline Guillermain, autrice di installazioni e opere d’arte plastico-figurativa, inspirate alle più raffinate trame mediterranee, di cui si era nutrito il suo embrionale estro creativo nei primi 15 anni di vita trascorsi in Tunisia. A dare la misura del livello di notorietà della coppia nella società palermitana è sufficiente ricordare il successo di alcuni eventi, che aveva visto protagonisti ora l’una, ora l’altro. Penso alla mostra Trans Apparence delle opere di Jacquiline (8-29 novembre 2012), ospitata dal “Centro d’Arte Piana dei Colli” di Villa Alliata, a Cardillo; penso ad alcune iniziative culturali e di promozione dello sviluppo locale conformi alle indicazioni della Unione europea, cui aveva partecipato attivamente Philippe.
Inserito già nel primo decennio del secolo negli organismi rappresentativi del Comitato Permanente per il Partinariato Euro-mediterraneo (Coppem) di Palermo, con il quale interagivano personalità dell’altra sponda del Mare Nostro, Philippe non perse tempo a mettersi in contatto con l’Università degli Studi di Palermo e a farsi apprezzare per il rigore scientifico e la capacità di approccio interdisciplinare, di cui diede ampia dimostrazione l’8 maggio 2014 con una relazione al corso di dottorato di ricerca per architetti: Strategie urbane e realtà geopolitiche. Il caso di Marsiglia.
Ma la sorpresa maggiore fu per me realizzare che, dopo aver indagato sulle proprie origini siciliane, Philippe aveva intrapreso una ricerca altrettanto appassionata sulla mia Villafrati e la sua storia. Ne venni a conoscenza solo il 22 gennaio 2015, quando l’incontrai per la seconda volta. Subito dopo avere accennato alla magnificenza principesca del Palazzo Mirto (assurto alcuni anni prima alla dignità di museo regionale, in forza di una donazione fatta alla Regione Siciliana dalla nobildonna Maria Concetta Lanza Filangeri dei conti di San Marco, principi di Mirto), Philippe mi fece dono, con un brillio agli occhi, di una copia di un suo libro pubblicato a Parigi alcuni mesi prima: Rendez la terre! Conti di San Marco et paysans sans terre de Villafrati.
Mi tornarono così, quasi per incanto, alla mente le lucide considerazioni del direttore dell’Istituto Superiore di Sociologia Rurale, Corrado Barberis, che avevo annotato e imparato a memoria come l’Ave Maria nei primi anni ’90 del secolo scorso: «Delineare l’evoluzione della società rurale significa delineare la storia della società italiana, perché da essa sono venuti i capitali necessari allo sviluppo, e le braccia: ben prima che l’orgoglio milanese di Cattaneo proclamasse: l’agricoltura esce dalla città, gli splendidi palazzi dei grandi comuni, costruiti mattone su mattone con proventi fondiari, testimoniano la società urbana figlia della rurale. E rintracciare i residui della psiche o dell’economia contadina nei più raffinati congegni della società industriale, o nei suoi interpreti, costituisce, ancora oggi, un’affascinante ricerca dell’archeologia dello spirito».
Per converso, mi sovvenne anche l’incipit di una poesia popolare siciliana, La storia di lu viddanu, che amava recitare il mio omonimo nonno paterno: «Sapissivu la pianta d’unni veni, a discinnenza è tutta di viddani», sapeste da dove viene la struttura della società, la discendenza è per tutti da contadini. Parole semplici, queste, che però rimandano ad una grande verità dimenticata. I primi nuclei di società si cominciarono a formare nella notte dei tempi, grazie alla rivoluzione agraria. Per coltivare i campi l’uomo passò dallo stato nomade allo stanziale, sorsero i primi villaggi e le differenze sociali; accanto alla massa dei coltivatori, si formarono i ceti eminenti della comunità, che vivevano a spese di coloro che producevano i beni alimentari.
Analizzando con taglio diacronico la comunità villafratese e il suo rapporto con la famiglia che l’aveva fondata, Philippe, intellettuale organico al mondo urbano e periurbano francese, aveva messo dunque a frutto le sue competenze di geopolitico per rintracciare i segni del passato agricolo e feudale in una piccola realtà dell’entroterra rurale del Palermitano, ormai ampiamente caratterizzata da stili di vita e comportamenti un tempo esclusivi della città. Dovevo leggere alla svelta il libro, mi dissi. Ma il mio proposito s’infranse subito contro il duro scoglio delle barriere linguistiche: persino la dedica autografa, che mi aveva appena fatto l’autore, era scritta in francese, lingua neolatina, facile quanto si vuole, ma pur sempre straniera e da me mai studiata.
A farmi cominciare ad entrare nel merito dell’opera fu qualche mese dopo lo stesso Philippe San Marco, informandomi che la stava facendo tradurre in italiano da Laura per ripubblicarla con qualche piccola modifica (resa necessaria dalle ulteriori ricerche) e corredata, sempre che io fossi stato d’accordo, di una mia nota introduttiva. Accettai con entusiasmo, mai mi era stata fatta proposta più allettante! E ancora non sapevo che il libro sarebbe stato edito dalla casa editrice bolognese Diogene Multimedia, diretta dal filosofo Mario Trombino, la cui madre, Caterina Forte, poteva essere stata compagna di classe della mia, essendo nate entrambe nel 1909 nello stesso quartiere di Villafrati. Man mano che traduceva, Laura mi sottoponeva le difficoltà che incontrava nella scelta dei termini feudali o attinenti a rapporti agrari desueti, consacrati per antica tradizione in un siciliano arcaico, evocativo di storie di lunga durata, il cui peso era stato immenso e l’eco appena percepibile.
Iniziò così il mio viaggio d’esplorazione delle ragioni che avevano indotto lo studioso francese ad avventurarsi con pazienza certosina nello studio della storia di Villafrati, assumendola (come lui stesso aveva tenuto a precisare) a metafora della Sicilia, che a sua volta – Leonardo Sciascia docet – è metafora dell’Italia e, per molti aspetti, anche di una dimensione più universale. La prima cosa che mi colpi, appena incominciai a sfogliare il testo, fu una frase del filosofo e scrittore francese d’Algeria, premio Nobel 1957 per la letteratura, Albert Camus: «Rendete la terra, la terra che non è di nessuno […]. Date la terra ai poveri […]». Mi piacque, vuoi perché quella esortazione era in perfetta sintonia con la mia ricerca (tuttora incompiuta) sui contadini siciliani che inseguivano il miraggio della terra fin dal 1767, vuoi perché Camus aveva sposato la causa dei coloni d’Algeria, sfruttati e bistrattati dai ricchi proprietari terrieri francesi.
Il fatto che Philippe l’abbia scelto come epigrafe la dice lunga sui contenuti del libro, anche perché lo studioso è nato a Ebolowa (Cameroun) e vissuto fino a 12 anni in Gabon e nella Repubblica Centrale Africana, dove suo padre aveva fatto carriera. Si può allora scommettere che nelle colonie il futuro deputato socialista avesse fraternizzato con altri bambini senza preoccuparsi della loro origine sociale né del colore della pelle; senza mai prendere in considerazione l’ipotesi che i suoi connazionali con quattro quarti di sangue francese nelle vene lo avessero poi ritenuto, per i suoi tratti somatici e il suo cognome siciliano, un «meteco» nell’accezione più spregiativa del termine. Nessuno aveva spiegato al piccolo sognatore che l’identità siciliana era vista con sospetto persino dagli italiani del Centro-nord. Basti ricordare che nel febbraio 1960 il grande giornalista toscano Indro Montanelli, intervistato in Francia dalla rivista parigina Le Figaro Letteraire, dichiarò con una disinvoltura degna di miglior causa: «Ah! La Sicilia! Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia. Ma voi non siete obbligati a dire agli algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravata, siamo obbligati ad accordare ai siciliani la qualità di italiani».
Philippe cominciò a fare i conti con i pregiudizi razziali verso i discendenti dei «rospi» che nell’Ottocento erano sbarcati a Marsiglia da navi provenienti dalla Sicilia dopo che la sua famiglia tornò a risiedete in Francia. Subì assurde discriminazioni nella vita militare e persino da deputato di belle speranze. Anche questo dovette avere un peso nella sua scelta di avviare la ricerca genealogica nella terra di progenie, dopo più di tre lustri di peripezie politiche, giudiziarie e private, che l’avevano più volte portato sull’orlo del suicidio. Certo è che Philippe uscì da quei guai a testa alta, e che i frequenti contatti con l’ex capitale dell’Isola furono il miglior balsamo per le sue residue afflizioni. I suoi amici palermitani gli diedero peraltro l’occasione di accostarsi e riflettere, tra il 2012 e il 2013, sul significato più profondo delle lotte contadine nella Sicilia del secondo dopoguerra, attraverso le lenti di un umile dirigente di base, Giovanni Lo Dico, autore del libro Finalmente le api mangiarono il miele. Autobiografia di un siciliano che non si rassegna. Cosa che lo arricchì anche umanamente.
«Nel libro "L’eredità siciliana" – scrive – ho raccontato la ricerca che mi aveva spinto a tornare a Palermo per cercare le mie origini paterne. Ero così risalito fino al mio bisnonno, Luigi San Marco. E a partire da lui, attraverso sua moglie Rosaria Prestigiacomo e i loro 8 figli, avevo potuto ricostruire la mia eredità siciliana e ritrovare i loro discendenti». Luigi morì infatti giovane e fu sepolto in una fossa comune del cimitero dei Rotoli. Rimasta nella miseria più nera, la vedova cercò una via scampo alla fame emigrando con i figli in Tunisia, per restarci quanto bastasse ad accumulare il denaro necessario a raggiungere Marsiglia, seconda tappa di un tortuoso percorso migratorio che si sarebbe dovuto concludere nella «Merica». Il sogno americano svani anche per responsabilità del più grande dei figli, Giovanni, che inviato nel Nuovo Mondo dalla madre per guadagnare quanto bastasse a comprare i biglietti di solo andata per il resto della famiglia, fece perdere ogni traccia di sé.
I San Marco rimasti a Marsiglia migliorarono comunque le loro condizioni. «Per me – sono ancora parole di Philippe – erano loro che contavano. Era di loro che avevo bisogno per sapere chi fossi realmente io al di là delle apparenze e dei giochi di ruolo. Erano loro che mi avevano permesso di relativizzare le difficoltà e aiutato a superarle […]. Risalire fino alle tracce dell’arrivo del mio bisnonno all’orfanotrofio di Palermo aveva costituito per me un momento di grande catarsi. Una potente scarica emotiva liberatrice ma che aveva in qualche modo esaurito le energie delle mie ricerche. Avevo raggiunto il mio scopo e questo mi soddisfaceva ampiamente. Non sentivo quindi il bisogno né il desiderio di spingermi oltre».
Ma come sempre accade nelle ricerche introspettive, vissute con ardore missionario, il mistero della nascita del bisnonno restava per Philippe qualcosa di simile alla siepe di Recanati sull’ultimo orizzonte dell’autoanalisi. Se L’eredità siciliana aveva fatto di lui un nuovo uomo, Philippe dovette rendersi istintivamente conto che l’esortazione socratica a conoscere se stesso non passava solo dal sentiero stretto del successivo ammonimento agostiniano: «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas». Sentiva che l’enigma della nascita del suo bisnonno non poteva essere penetrato fino in fondo, ma solo aggirato per portarsi, nel migliore dei casi, alla soglia della verità.
E intanto la lunga ricerca negli archivi palermitani lo avevano fatto appassionare alla materia dell’infanzia abbandonata, una piaga sociale che aveva afflitto a lungo la Sicilia, ma anche la Francia ed altri paesi europei. Deciso ad approfondirne la conoscenza, Philippe aveva partecipato ad alcuni seminari specializzati e si era confrontato a lungo con il filosofo e storico dell’Islam Mahamed Arkoun, finché un giorno la storica Giovanna Fiume dell’Università di Palermo non gli segnalò un convegno internazionale, che si sarebbe tenuto a Montpellier sul tema: Enfants perdus, enfants trouvés: discours et littérature sur l’enfance délaissée dans l’Europe d’Ancien Régime. L’argomento era troppo importante perché Philippe se lo lasciasse sfuggire. Vi partecipò e, dopo avere ascoltato tutte le relazioni (di cui sono riportati autori e titoli in questo libro) si convinse che il caso del suo bisnonno Luigi San Marco non era che un tassello più o meno simile a tanti altri dello stesso doloroso mosaico internazionale. Il caso era definitivamente chiuso, per lui.
Poi Santo Lombino (futuro fondatore del Museo delle Spartenze, con sede a Villafrati, volto a ricostruire la storia dell’emigrazione dai comuni della vasta area di Rocca Busambra), lo invitò a visitare il ridente paesino, di cui i conti di San Marco erano stati signori feudali. Ma lui mostrò poco interesse alla proposta. Ci ripensò dopo un colloquio con il grande storico francese Pierre Nora, il più insigne studioso al mondo dei «luoghi della memoria», dal quale Philippe fu incoraggiato ad accettare l’invito, asserendo che «ciò che è accaduto realmente ha molto meno importanza di ciò che si è ricostruito». Andò a Villafrati, ma non certo con l’animo del ricercatore di titoli di proprietà o di scampoli di blasone perduto, bensì con la curiosità di capire meglio chi fossero realmente quei signori, il cui qualificativo di uno dei principali titoli nobiliari coincideva con il suo cognome.
Il risultato fu che gli si aprirono nuovi orizzonti di ricerca nel campo della microstoria. E, quasi a volersi giustificare dell’audace incursione nel territorio impervio di una disciplina che in Francia aveva tra i suoi massimi cultori gli studiosi formatisi alla scuola Fernand Braudel, Philippe sentì il bisogno di riportare in epigrafe, sotto le parole di Albert Camus, che invitavano i proprietari terrieri francesi che erano diventati tali in Algeria a restituire la terra agli algerini, anche una frase dello storico parigino Ivan Jablonka: «Io sono uno storico come Enea che lasciò Troia in fiamme con il padre sulle spalle. Sono uno storico per ripristinare il mondo».
Philippe prese a ricostruire la storia di Villafrati in punta di piedi, ma con la consapevolezza di appartenere comunque alla cultura francese, che lo legittimava a scrivere: «Cercando di seguire da più vicino possibile la famiglia dei Filangeri un cui membro aveva giocato un ruolo di fondamentale importanza dalla nascita di Luigi San Marco, circoscrivendo questa ricerca nel piccolo territorio di Villafrati, si trattava di un lungo viaggio nel tempo che iniziava per me e dal quale non sarei rimasto indenne, cosciente da quel momento in poi di essere a ogni modo l’erede di una storia complessa, spesso tortuosa, colma di speranze sempre tradite […]. Proprio come spesso accade per comprendere una piccola storia occorre ricollocarla in un contesto più ampio. E al contrario la storia prende spesso il suo senso quando è possibile incarnarla e radicarla in dei personaggi e dei territori. In ogni caso di ascriverla nella memoria lunga degli uomini, quella di cui sono spontanei portatori al di là del sapere accademico, poiché si tratta nel loro caso di un corpus storico autorevole e che serve da cornice ai loro co"mportamenti quotidiani. È per questa ragione che in questo libro passerò da una scala all’altra in quanto tutto è indissociabile e ogni elemento rischiara l’altro vicino».
Armato di questo metodo, lo studioso francese non fece molta fatica per concludere che Villafrati doveva essere raccontata come metafora della Sicilia, sia per i suoi rapporti con il capoluogo di provincia, sia per la sua configurazione sociale. Naturalmente, anche se lui non lo specifica, la Sicilia cui si riferisce è quella del feudo e del grano, che ha stupito non pochi viaggiatori stranieri del Settecento e dell’Ottocento, inclusi i francesi, da Jean Houl (che pure era più interessato agli aspetti pittoreschi) a René Bazin (futuro accademico di Franchia). È la Sicilia che nel 1876 era stata riassunta così dal grande geografo anarchico francese Élisée Reclus:

"Si sa che la Sicilia fu in antico la predilezione di Cerere: è là, nella pianura di Catania, che la buona Dea insegnò agli uomini l’arte di arare il suolo, di spandervi i semi, di tagliare la messe. I siciliani non hanno dimenticato le lezioni di Demeter, poiché il suolo dell’isola per più che la metà è coltivato a cereali, ma convien dire che non han guari migliorato il sistema di coltura dalla Dea insegnato in epoche favolose. Ché, anzi, è loro presso a poco impossibile di far meglio che i loro antenati, poiché in virtù del loro contratto col nobile proprietario, erede del feudatario normanno, i coltivatori sono nell’obbligo di eseguire l’antica routine dei lavori. Quasi tutti i loro strumenti sono di forma primitiva, i concimi sono poco adoperati, e dopo il seme è nella terra, il contadino lascia la cura del campo alla buona natura".

Ora, l’economia di questo scritto non consente di scendere nei particolari di un lavoro bene articolato e lucido come quello del San Marco, ma qualche breve considerazione bisogna pur farla, prendendo spunto dalla sua narrazione. Il primo vero salto di qualità i Filangeri, da secoli in corsa verso i più alti ranghi aristocratici, lo fecero nel Settecento, quando attorno alla masseria di Villafrati (acquistata all’asta nel 1596 dal loro antenato Vincenzo Spuches, giudice di Gran Corte) cominciarono a costruire un villaggio abusivo che «per sola pietà del Sovrano», non fu poi (tra il 1753 e il 1755) demolito. Pietà attenuata dal fatto che l’autore dell’abuso disponeva di una licenza di costruzione in una località diversa (Chiarastella) rilasciata nel 1602 all’antenato che pochi anni prima si era aggiudicato all’asta l’area in cui stava sorgendo il nuovo abitato. Pietà discendente da un preciso calcolo della Corona che, sanando l’abuso, incassava dei tributi straordinari, favorendo nel contempo l’incremento della cerealicoltura e la bonifica di un territorio infestato da malfattori, che spesso alleggerivano le cordate (retini) di sette muli carichi di grano destinato all’esportazione verso paesi stranieri o i porti della Spagna, da cui la Sicilia era appendice quasi coloniale. Senza considerare che, aumentando il vassallaggio dei conti di San Marco, crescevano anche le entrate del regio fisco.
Ecco, già i temi dell’abusivismo e della successiva sanatoria degli abusi (accordata negli stessi anni anche ad altri baroni) fanno del caso di Villafrati metafora della Sicilia e di una dimensione molto più ampia, che coinvolgeva gli interessi della Corona di Spagna. Se poi facciamo focus sulla vicenda dei coloni che, inseguendo il miraggio della terra, nel tempo sono approdati nello «Stato» di cui erano signori i conti di San Marco, la musica non cambia. A Villafrati, come altrove nell’Isola, viene smentito il vecchio luogo comune che vuole la Sicilia feudale socialmente bloccata: «non c’è mai stata alcuna società i cui strati fossero socialmente chiusi o in cui la mobilità nelle sue tre forme – economica, politica e professionale – non sia stata presente», afferma giustamente il grande sociologo russo-americano Pitirim Aleksandrovich Sorokin.
I riveli di anime e beni fatti eseguire da Vittorio Amedeo di Savoia, divenuto re di Sicilia in forza del trattato di Utrect, attestano che nel 1714 a Villafrati risiedevano quindici famiglie (fuochi) per un totale di 47 persone (anime). Quarant’anni dopo non era più in vita nessuno dei capi famiglia del 1714. Eppure, grazie a nuove ondate migratorie, la popolazione era articolata in 171 fuochi e 637 anime, delle quali 328 (51,49%) maschi e 309 femmine. Nel 1798 raggiunse addirittura 1.486 abitanti, ma lo spaccato sociale, a causa degli iniqui rapporti produttivi in agricoltura e della piaga dell’usura, era notevolmente cambiato. I discendenti del capo famiglia del 1714 meno disagiato (Natale d’Oddo) erano ormai ridotti allo stato di “poveri e miserabili”; un arrampicatore sociale (Luigi Traina), figlio di gabelloto era diventato prima governatore del conte di San Marco e poi affittuario dell’intera baronia di Villafrati e monopolista del credito usuraio, che gli consentì di appropriarsi delle case e dei terreni di decine e decine di contadini, che su quegli immobili pagano il censo ai Filangeri.
A prescindere dai casi individuali, sul finire del secolo dei lumi le masse contadine di Villafrati erano immiserite al punto che i loro bambini si aggiravano per le strade cenciosi e quasi nudi; chiedevano insistentemente l’elemosina ai viandanti e rubavano loro anche gli ossi spolpati, quando si fermavano per mangiare e far riposare i cavalli nella squallida locanda detta «fondaco». Fu quello che successe il 9 ottobre 1793 a Carlo Gastone, conte della Torre di Rezzonico, e Philippe non manca di ricordarlo. Ma a Rezzonico non andò meglio durante quello stesso viaggio ad Alcamo, cittadina con ben altra storia e tutt’altre risorse territoriali. Il vero è che a quell’epoca la fame non risparmiava nemmeno le capitali europee. Da Heinrich Eduard Jacob sappiamo che l’assalto alla Bastiglia il 14 luglio 1789 riuscì perché si era sparsa la voce che dentro la solida fortezza potessero trovarsi le prove di un fantomatico «complotto del grano», di cui sarebbero stati responsabili noti personaggi vicini alla Corona di Francia. Su proposta di Danton nel 1793 a Parigi si cominciò a produrre il pain d’egalité, integrale e di pessima qualità, uguale per tutti. E gli uomini del terrore, per esorcizzare lo spettro della fame organizzarono una festa di ringraziamento per il raccolto: «Roberspierre, vestito d’azzurro, con un’espressione rigida e astratta sul volto, percorse lentamente, a piedi, le vie di Parigi dietro una coppia di buoi». Recava in magno un mazzo di grano e papaveri artificiali.
Ho voluto raccontare questi particolari, non già per amore del pittoresco, ma per ricordare che fino agli anni della rivoluzione francese le condizioni di Villafrati e della Sicilia non erano troppo diverse da quelle del resto dell’Europa. Le divaricazioni successive – è lo stesso Philippe a ricordarlo – sono figlie di ciò che nello scorcio del secolo del Settecento in Francia e delle ripercussioni che ebbero nell’Isola le guerre napoleoniche. «Certo – scrive l’autore – al prezzo di violenze eccessive, quindi da condannare, la rivoluzione francese ha permesso la fine effettiva del feudalesimo e ha operato un trasferimento massiccio e rapido di ricchezza a vantaggio di una borghesia imprenditoriale, la stessa che assicurerà in seguito il passaggio allo sviluppo industriale. È proprio quello che è mancato alla Sicilia e che spiega oggi il suo debole inserimento nell’economia contemporanea, seguito da disoccupazione ed emigrazione di massa».
A differenza delle altre regioni d’Italia, «la Sicilia non aveva conosciuto l’esperienza del giacobinismo, né la presenza delle armate di Napoleone, portatrici nel bene e nel male dello spirito della Rivoluzione». Fu perciò già tanto se il vicerè Domenico Caracciolo, già ambasciatore del regno borbonico a Parigi e amico di D’Alambert, riuscì a ridimenzionare l’eccessivo potere dei baroni sui vassalli e le amministrazioni locali e a sopprimere il Tribunale del Santo Uffizio. Vale la pena di aggiungere che il suo successore, principe di Caramanico, anche lui portavoce dell’assolutismo illuminato, si intestò un ambizioso programma di distribuzione delle terre pubbliche ai poveri. Ma a fare la parte del leone furono, ovunque nell’Isola, i ricchi borghesi aspiranti al blasone e la vecchia aristocrazia baronale. Le briciole toccate agli zappaterra cambiarono presto padrone, perché, come ha scritto Denis Mack Smith, «o i contadini non potevano pagare i canoni terrieri e non erano nemmeno in grado di procurarsi il capitale di base necessario per una coltivazione indipendente; oppure gli apprezzamenti di terreno erano troppo piccoli e troppo distanti; oppure le leggi venivano manipolate a proprio vantaggio dai notabili di ciascun villaggio».
Amato dal popolo siciliano, il vicerè Caramanico morì a Palermo l’8 gennaio 1795, forse avvelenato. Gli successe nella carica ma con il titolo di presidente del regno l’arcivescovo di Palermo Filippo Lopes Roio, che ripristinò un clima reazionario volto a reprime ogni anelito di libertà e giustizia sociale e a impedire la formazione di partiti filo-francesi. Stroncò sul nascere la congiura repubblicana del giurista Francesco Paolo Di Blasi, convinto sostenitore delle «idee di Rousseau sulla giustizia sociale». Di Blasi fu condannato alla decapitazione preceduta dalla tortura, nel tentativo di far costituire «li correi che son fuggiaschi». La sentenza fu eseguita il 20 maggio 1795.
Non può allora sorprendere se la Sicilia fu l’ultimo regno d’Europa ad abolire la feudalità e se la nuova costituzione del 1812, opera quasi esclusiva dell’aristocrazia e dell’alto clero d’estrazione delle stesse famiglie dominanti, non abbia poi avuto in certe realtà come Villafrati nessun effetto dirompente. «Era l’aristocrazia – nota Philippe San Marco – che continuava a possedere e comandare “come prima” una grande parte dell’isola. L’abolizione del feudalesimo era stata dunque a vantaggio esclusivo dell’aristocrazia e i contadini rimanevano esclusi dalla proprietà fondiaria». Questa anomalia tutta siciliana, che trova qualche modesto riscontro in certe aree della Calabria e di altre regioni meridionali, condiziona le vicende successive della storia d’Italia. E i contadini poveri che vi partecipano (penso all’epopea garibaldina del 1860, alla rivolta palermitana del 1866, ai fasci dei lavoratori, all’emigrazione transoceanica otto-novecentesca, alle occupazioni di terra del primo e del secondo dopoguerra) sono sempre animati dalla fame di terra, indipendentemente dall’ideologia di coloro che di volta in volta li guidano (socialisti, cattolici, combattenti, comunisti).
I contadini senza terra di Villafrati sono stati in ogni epoca tra i più combattivi dell’Isola, anche perché ancora alla fine del primo decennio del Novecento la presenza del feudo era attualità fin troppo opprimente. L’inchiesta parlamentare del professore Giovanni Lorenzoni evidenzia che la risorsa fondamentale era l’agricoltura. Soltanto due latifondi del conte di San Marco occupavano il 54,5% della superficie agricola del territorio comunale. Nel rimanente 46,5% non c’era una sola ara di terra libera dai pesanti canoni enfiteuitici (censi) che si pagavano al conte di San Marco. E i censi gravano inoltre su tutte le case d’abitazione. I salari dei braccianti erano tra i più bassi dell’Isola. Da altre fonti sappiamo che tutte le leve del potere locale erano in mano agli uomini dell’amministrazione ex baronale. Davanti al severo portone di ferro del complesso del Baglio (dove la famiglia padrona passava di solito la villeggiatura estiva), c’era sempre una paurosa ressa di campieri armati. Ma tutto questo non scalfiva l’immagine positiva degli ex feudatari che, quando venivano in paese, elargivano un po’ di grano o di denaro alle famiglie più povere.
Il caso di Villafrati ci può inoltre aiutare ricostruire la genesi della mafia rurale e i suoi rapporti col mondo urbano. Qui la mala pianta cominciò a prender forma nella prima metà dell’Ottocento, per precisi calcoli degli ex baroni, che affidavano l’amministrazione del proprio patrimonio a personale formatosi in epoca feudale e rotto ad ogni sorta di prepotenza. È un fatto che, sostenuta da tali personaggi, donna Vittoria Filangeri, contessa di San Marco, tra la fine degli anni Trenta e l’inizio del decennio successivo usurpò e fece includere a suo nome nel nuovo catasto le terre comunali di Costa d’Ape, dove pascolavano, sin dall’epoca della fondazione del paese, le capre che davano il latte agli orfanelli e ai projetti (bambini abbandonati). Da lì ad arrogarsi il diritto di vendere il suolo pubblico all’interno del paese il passo fu breve. E nessuno poteva ribellarsi.
Scoppiata la rivoluzione del 1848, dopo una fase iniziale di neutralità, al fine di tenere a bada quelli che lei continuava a chiamare “vassalli”, la nobildonna fece convertire i suoi più fidi dipendenti alla causa liberale per rimpossessarsi del comune, salvo a farli rientrare nei ranghi borbonici quando la Sicilia stava per essere riconquistata alla Corona dal generale Carlo Filangeri, principe di Satriano. Nella primavera 1849, quando fu proclamato il disarmo generale, donna Vittoria pregò il Satriano (che, fra l’altro, una ventina di giorni prima era stato suo ospite gradito nella palazzina baronale dentro il Baglio di Villafrati), ed ottenne subito «il permesso di detenzione ed asportazione d’armi» per sette salariati, un soprastante e sei campieri, i cui cognomi sono rimbalzati, anche di recente, tante volte agli onori della cronaca giudiziaria per fatti di mafia.
Accanto a questi cognomi nel tempo si riscontrano altri ben più noti, che vengono pure foraggiati dall’amministrazione del Conte di San Marco. Basti ricordare don Piddu Fontana, l’assassino del direttore del Banco di Sicilia Emanuele Notarbartolo di San Giovanni e il suo degno allievo Gaspare Tedeschi, già imputato come esecutore materiale dell’omicidio di Giuseppe Petrosino, il poliziotto italo-americano che stava indagando sulla Mano nera. È appena il caso di aggiungere che Fontana da Villafrati emigrò in America, dove divenne elemento di spicco della Mano nera e in forza di tale potere criminale attrasse nella sua orbita Tedeschi, futuro sindaco del paese. Il quale nel 1893 era stato uno dei capi più autorevoli del locale Fascio dei lavoratori e, alla fine del secolo, aveva cominciato a bruciare le tappe di una brillante carriera mafiosa, fondata soprattutto sull’esportazione clandestina di manodopera e prodotti agro-alimentari siciliani, che facevano la spola tra i porti di Palermo, Tunisi, Marsiglia e New Jork (gli stessi scali presi in considerazione nel progetto di riscatto della giovane vedova Rosaria Prestigiacopo, bisnonna di Philippe). Ma restano pur sempre le famiglie dei campieri del 1849 ad assicurare tuttora la continuità della mafia.
È vero, ben individuate genealogie di “uomini d’onore” si riscontrano anche in alcuni centri siciliani mai sottoposti al dominio feudale: il che fa pensare che non sia stata soltanto la persistenza dell’economia latifondistica a generare l’idra parassitaria con cui purtroppo continuiamo a fare i conti in questo travagliato inizio del terzo millennio. Ma la grande proprietà – indipendentemente dalla sua connotazione aristocratica, ecclesiastica, borghese o demaniale – è stata almeno una delle principali cause del radicamento della mafia nelle campagne. E, a giudicare dalle fonti da noi indagate, la mala pianta attecchiva bene nell’orto della mala signoria. Nei comuni dove la proprietà feudale aveva ancora un grosso peso, a complicare l’esistenza ai contadini senza terra e alle loro famiglie contribuiva l’assenteismo dei padroni, che sperperavano i proventi fondiari in città o all’estero.
Nei feudi (si continuavano a chiamare ancora così i latifondi ex-feudali) facevano solo brevi capatine per andare a caccia. Per il resto dell’anno, quei signori preferivano, come i loro avi, trottare a Palermo, «in splendide carrozze e livree». Le loro terre erano gestite dagli amministratori e dagli imprenditori privati detti gabelloti, che prendevano in affitto interi feudi e, dopo averli lottizzati, li concedevano a metateria o a terraggio (affitto con un gravoso canone in natura), ai borgesi, «la classe più operosa di cittadini, ma la più oppressa e tirannizzata dai principali fittuari». Così aveva scritto Paolo Balsamo nel 1792; e così continuò ad essere stancamente fino al 1950, quando fu approvata la legge regionale di riforma agraria, frutto di una lunga e dura stagione di lotte per la terra, considerata dagli osservatori più attenti la più grande epopea contadina di tutta la storia sociale di Sicilia.
Epopea che vide larghi strati del popolo di Villafrati prodursi, anche nei comuni della zona, in una guerra di liberazione dagli ultimi retaggi del feudo. Lottarono e in parte vinsero, i contadini senza terra di Villafrati: la famiglia padrona uscì di scena, la proprietà ex-feudale fu smembrata, in larga parte per vendite ad acquirenti dei paesi vicini. I lotti assegnati, con il metodo del sorteggio, furono pochi e di proporzioni così modeste da indurre assai presto gli assegnatari ad andarsi a cercare il lavoro nelle fabbriche del Nord o all’estero, dove erano già emigrati molti dei loro compaesani, ignorati dalla Dea bendata. Storia dolorosa quella degli ex vassalli del conte di San Marco. Storia di un popolo che ha smarrito molti tratti della sua identità rurale e che non ha potuto, perciò, nemmeno far tesoro, nell’ultimo trentennio, delle politiche comunitarie di sviluppo locale. Storia di una comunità che nella lunga durata dei secoli non ha saputo esprimere mai una borghesia progressista, e se qualche borghese illuminato ci è pure stato, ad un certo momento si è trasferito in città.
Il solo personaggio positivo incontrato da Philippe nella storia di Villafrati è l’ingegnere Gaetano Mondino, palermitano ed ex ufficiale garibaldino sposato con una villafratese, che negli anni ’70 dell’Ottocento tentò di dar voce ai diritti e ai bisogni dei “villici”, trattati in modo disumano dai gabelloti. In quell’esempio, isolato e osteggiato dai prepotenti, l’autore riscontra qualcosa di simile di ciò che lui aveva cercato di fare a Marsiglia. Cade a proposito ricordare che a Gaetano Mondino (sconosciuto dalla stragrande maggioranza dei villafratesi), i suoi parenti acquisiti in odore di mafia dedicarono il vicolo più stretto e corto del paese, detto Vanidduzza stritta, e per giunta con il cognome sbagliato: “Mondini”. Circostanza, questa, che probabilmente Philippe ignora, ma credo che non si scandalizzerebbe se qualcuno gliela riferisse, atteso che, nonostante i lunghi anni d’inferno vissuti in Francia, ha deciso di dedicare il libro alla sua bisnonna Rosaria Prestigiacomo, perché aveva avuto il coraggio di portare la numerosa prole definitivamente fuori della Sicilia.
La conclusione del libro è però tutt’altro che rassegnata. Anzi, da vecchio combattente, Philippe arriva a dire, che il suo racconto su Villafrati, «un piccolo fazzoletto di terra siciliana, è portatore di un messaggio a vocazione universale. Quello di un’esigenza che impone in tutti i tempi a ciascuno di noi di non piegare la schiena, d’assumerci le nostre responsabilità personali e di essere esigenti nei confronti delle donne e degli uomini che ci rappresentano politicamente. Lo spettacolo della volgarità e della mediocrità che dominano oggi, prelude, senza una sana reazione, al peggio».
Da villafratese della diaspora sento il bisogno di aggiungere che il paese ha saputo far tesoro della sua storia, se è vero che il sindaco Francesco Nicastro, per quanto poco istruito, ha capito in tempi non sospetti che il complesso del Baglio di Villafrati, già simbolo di un potere feudale sopravvissuto allo stesso regime fascista, poteva diventare bene comune dei villafratesi, emblema del riscatto culturale della comunità e centro polivalente a servizio dello sviluppo zonale. Ebbene, Nicastro ha acquisto il Baglio. Uno dei magazzini del severo complesso baronale, che ai tempi della mia infanzia e prima giovinezza ospitava i monaci questuanti, è divenuto teatro sperimentale, che peraltro ha prodotto spettacoli che hanno fatto il giro del mondo. Accanto al Teatro del Baglio è sorto un laboratorio teatrale e un altro di musica. Pochi mesi fa è stato pure inaugurato il Museo zonale dell’emigrazione detto delle Spartenze. Ubicata nella palazzina del Baglio già da anni, il 18 marzo 2018 la Biblioteca comunale è stata intestata al villafratese illustre (pedagogista, storico, etnologo, animatore teatrale) Salvatore Raccuglia. Alla scoperta dell’instancabile intellettuale villafratese dimenticato ha contribuito in modo decisivo un convegno tenuto, appunto, dentro il Baglio il 26 gennaio 2016, i cui atti sono stati alla fine dell’anno con il titolo Cultura, Scuola e Tradizioni popolari in Salvatore Raccuglia (1861-1918), a cura di Giuseppe Oddo e Caterina Sindoni.
A tale evento ha partecipato anche Philippe, che concluse l’intervento con queste parole: «In Francia potremmo immaginare che questo baglio sia stato distrutto nel 1789, raso al suolo, affinché questo simbolo stesso scomparisse dalla memoria. Grazie al comune di Villafrati per aver restituito questo baglio alla popolazione per destinarlo alla cultura, il cui teatro ha avuto come consulente artistico e primo direttore Enzo Toto, vincitore del Premio Scenario 1994-95, nonché autore e regista di diversi spettacoli, uno dei quali, La Spartenza, è stato presentato per la prima volta a Villafrati, da dove è stato poi portato in diverse città europee e persino a New Jork. E i giovani attori del Teatro del Baglio di Villafrati hanno così raccontato i diari di Tommaso Bordonaro, contadino di Bolognetta emigrato con la famiglia nel New Jersey, cosa che testimonia con forza che l’approfondimento dell’identità non significa affatto ripiegamento su se stessi ma, al contrario, apertura al mondo».
La comunità villafratese non poteva ricevere omaggio più bello da parte di un cittadino straniero, forse discendente dell’ex signore feudale del paese. La pubblicazione del nuovo libro costituisce, per i suoi contenuti, un altro prezioso regalo di Philippe a Villafrati e alla Sicilia, che vale la pena di leggere e a far conoscere soprattutto alle nuove generazioni, cui è per legge di natura affidato il compito di curare e far germogliare le radici del futuro.
Giuseppe Oddo
Palermo 29 maggio 2018

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