giovedì, gennaio 10, 2019

I cinquant'anni del “Padrino”: così i cliché sulla mafia diventarono un brand

Il Padrino / Marlon Brando

DI UMBERTO CANTONE
Nel 1969 usciva il libro di Mario Puzo, poi trasformato da Coppola in icona cinematografica dei boss siculo-americani
In occasione della campagna promozionale della “parte terza” in odore di flop, la Paramount non esitò a recuperare, come frase di lancio, una battuta diventata lo stereotipo per eccellenza della popolarissima saga del “Padrino” targata Coppola & Puzo. E così «il film che il pubblico non potrà rifiutare», costato in quel 1990 ben 58 milioni di dollari, si affidò alla benevolenza degli spettatori planetari già conquistati dai due precedenti cult movie derivati da un esempio di Triviallitteratur tra i più godibili e influenti del nostro tempo.

Ora che “Il padrino” dell’italoamericano Mario Puzo compie mezzo secolo — essendo stato pubblicato nel 1969 per la newyorkese Putnam’s Sons di cui ha fatto la fortuna grazie ai 9 milioni di copie vendute nei primi due anni — possiamo considerarlo per quello che è: un rozzo feuilleton dalle ambizioni fitzgeraldiane però dotato di un’elettrizzante verve degna di un pulp alla James Hadley Chase.

Perché, diciamolo pure, sorprendendo lo stesso Puzo che lo considerava un mediocre libro scritto per motivi alimentari, “Il padrino” ha saputo imporsi come un perfetto modello di best seller globale trasformatosi col tempo in fucina d’intrattenimento multimediale e persino in attraente brand da pro loco. C’è da scommettere che gran parte dei più giovani consumatori del suo marchio su magliette e PlayStation, ignorano l’esistenza del prototipo cartaceo di questa edulcorata narrazione della weltanschauung mafiosa, detestata fin dall’uscita da quei mafiologi che non hanno mai perdonato a Puzo di aver sposato la retorica di Cosa Nostra come Margaret Mitchell fece con la “Bible Belt” sudista per Via col vento.

A ombrare la rispettabilità dell’autore del Padrino contribuì la leggenda che egli fosse organico all’onorata società. Una leggenda che si diffuse per via di un maledetto invito a cena rivoltogli dal boss Joe Gallo. L’invito fu cortesemente respinto e a quella cena “Crazy” Joe venne massacrato a colpi di mitra. Fu facile per i dietrologi sostenere che, in quanto colluso, Puzo era stato avvertito dell’agguato, e non bastò a sfatare ogni insinuazione l’uscita degli autobiografici Diari del padrino dove egli sostiene di aver scritto il romanzo basandosi unicamente su documentazione.

Non v’è dubbio che lo scrittore abbia esagerato nel regalare un’insopportabile allure a Cosa nostra. Ma sarebbe ingiusto dimenticare quanto il suo romanzo, impregnato fino alla sgradevolezza di violenza e sesso (al contrario delle trasposizioni di Coppola), abbia contribuito a svelare, insieme alla quotidianità mafiosa, il dark side dell’istituzione familiare utilizzata come modello criminale. E comunque, il resistente successo dell’opera di Puzo si deve soprattutto alla sua capacità di mescolare cliché nuovi di zecca agli stereotipi abusati sui codici d’onore, le offerte irrifiutabili e l’indefesso machismo degli uomini di panza nutriti a lasagne, polpette e sfogliatelle.

Cliché rinnovati a partire dal titolo, con quel termine “padrino” che soppiantò da allora in poi quelli di boss e di “mammasantissima”.
Per non parlare del logo di libro e film, la mano che tiene i fili diventata l’icona della morale da homo homini lupus che divide l’umanità in pupari e pupi, inducendo anonimi becchini e celebri “crooner” modello Frank Sinatra a ricorrere alla legge del taglione o a invocarla come favore a un capomafia che non può sottrarsi all’impegno nel giorno in cui la figlia si sposa (una “tradizione” che Puzo ha inventato di sana pianta).

C’è poi la semplificazione storica condotta dal romanzo sulla virtuosa mafia bucolica con coppola e lupara (oleograficamente descritta nel capitolo dell’esilio siciliano di Michael Corleone) che sarebbe stata traviata dall’avidità sanguinaria del mercato criminale globalizzato: un luogo comune che ha fatto breccia su pagine e schermi, fornendo una morale consolatoria a quei prodotti che hanno tentato di emulare l’originale.

Quanto all’inflessibile carisma dai nervi distesi di Vito Corleone, prima che Brando ne facesse un malinconico bulldog, sappiamo ormai che ha come modello quello della madre dello scrittore, un’immigrata avellinese che, dopo la fuga di casa del marito, allevò da sola il figlio (nato nel 1920) nel ventre del mefitico quartiere “Hell’s Kitchen” di Manhattan. In un’intervista rilasciata qualche mese prima della propria morte (avvenuta nel 1999), Puzo la descrisse come «una donna tranquilla, che parlava sempre a bassa voce, ma che era implacabile con chiunque osasse fare un torto alla sua famiglia: sapeva che cos’era la vendetta». E questa sembra proprio una didascalia adeguata al personaggio del patriarca diventato un “don” solo perché costretto a difendere la propria famiglia. Se è vero che ormai siamo (quasi) tutti consapevoli del fenomeno mafioso in perenne evoluzione, allora possiamo finalmente guardare con più simpatia al romanzo dei romanzi su Cosa nostra, magari rileggendolo in un’ottica intimista. Come se fosse un tentativo, da parte di un immigrato nostalgico delle proprie radici, di dare forma epica e cuore di tenebra al desiderio di un’unità familiare mai conosciuta. Il calore e la polvere di una mafia che finge di essere quello che non è mai stata.
La Repubblica, 10 gennaio 2019

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