martedì, marzo 28, 2017

Calogero Comaianni, l'eroe normale di Corleone

Calogero Comaianni
di Dino Paternostro
La guardia campestre venne uccisa il 28 marzo del 1945, 72 anni fa. Sei mesi prima aveva arrestato Luciano Liggio, la futura «primula rossa» della mafia e Vito Di Frisco mentre rubavano dei covoni di grano in un campo vicino al paese. 
Non era un eroe Calogero Comaianni, ma un uomo normale che cercava di sfamare la moglie e i suoi cinque  figli, facendo di mestiere la guardia campestre. Era semplicemente un uomo onesto, una persona perbene. Certo, la Corleone degli anni ’40 non era il posto migliore per esercitare un mestiere che in qualche modo avesse a che fare col rispetto della legge. Ma lui ci provava lo stesso. Con equilibrio e buon senso, girava le campagne insieme alle altre guardie campestri, vigilava, dava consigli da buon padre di famiglia a qualche giovane scapestrato, tentato da qualche «scorciatoia» per uscire dalla miseria. 
Anch’egli è una vittima innocente di mafia, che non viene quasi mai ricordato da nessuno. Sarebbe ora che la Corleone civile e democratica si ricordasse di lui e delle altre vittime dimenticate, dedicandogli un pensiero in segno di gratitudine. Di questi esempi hanno bisogno i giovani e tutti i cittadini onesti di Corleone per risalire la china.

Il 2 agosto 1944, Comaianni stava facendo il suo solito giro di perlustrazione. Con lui c’erano le guardie campestri Pietro Splendido e Pietro Cortimiglia. Ormai era piena estate e il grano delle campagne corleonesi era stato quasi tutto mietuto da migliaia di braccianti agricoli, molti dei quali provenienti ai comuni della fascia costiera. La sola manodopera locale, infatti, non era sufficiente e si doveva ricorrere a quella proveniente da Bagheria, Misilmeri, Villabate e Ficarazzi, dove la raccolta degli agrumi era terminata da un pezzo. All’improvviso, si accorsero che due giovani stavano arraffando covoni di grano, caricandoli sui muli. «Fermi! Che fate?», gridarono le guardie. Poi si avvicinarono e li videro in faccia. Erano Luciano Liggio e Vito Di Frisco. «Alla vista degli agenti Liggio non fece una piega. Si lasciò  arrestare con quell’aria mansueta e vittimistica ostentata ogni volta che la giustizia arriverà a mettergli le mani addosso. Ma quando lo scatto delle manette gli imprigionò i polsi gettò un’occhiata di fuoco in faccia agli agenti, come per stamparseli bene nella mente», scrive Marco Nese (Nel segno della mafia. Storia di Luciano Liggio, 1975). Per quel furto Liggio rimase in galera tre mesi. Ad ottobre uscì dal carcere in libertà provvisoria, ma i volti delle guardie che l’avevano arrestato non era riuscito a dimenticarli. Aveva un amico «Lucianeddu», un coetaneo di nome Giovanni Pasqua. «Cumpà – gli disse – gli sbirri che mi hanno arrestato non la devono passare liscia. A cominciare da quel Calogero Comaianni, tuo vicino di casa». E insieme studiarono un piano per levarselo di torno. L’occasione propizia sembrò presentarsi la sera del 27 marzo 1945, sei mesi dopo che la futura «primula rossa» era uscita dal carcere. Calogero Comaianni stava rientrando nella sua casa di via Sferlazzo, in pieno centro storico, quando si vide seguito da due uomini incappucciati. 
Accelerò il passò, ma pure quelli accelerarono il loro. Con uno scatto felino, la guardia giurata fu svelta a guadagnare la porta di casa, cogliendo di sorpresa i due killer. «Ho avuto l’impressione che due uomini mi seguissero», confidò alla moglie Maddalena Ribaudo. «Li hai conosciuti?», gli chiese lei. «Uno mi è sembrato Giovanni Pasqua. Ma chi può avercela con me? Io non ho fatto male a nessuno, solo il mio dovere», rispose. Il giorno dopo, di prima mattina, Calogero Comaianni pulì la stalla e poi uscì di casa per andare a buttare gli escrementi di animali nella vicina discarica. Fatti pochi passi, si accorse di avere dietro gli uomini della sera precedente. Si guardò intorno. Vide il portone aperto della stalla di un vicino di casa, provò a cercarvi riparo, ma quello glielo chiuse in faccia. Allora Comaianni capì e provò a tornare precipitosamente a casa. Fece appena il tempo a bussare, che uno dei due inseguitori gli sparò addosso due colpi di pistola. La porta si aprì e, nonostante già fosse ferito, l’uomo provò a salire i primi gradini. Fu raggiunto dai killer, che gli puntarono ancora addosso le loro armi. Comaianni si girò, guardò in faccia quello più vicino e lo riconobbe: era Giovanni Pasqua. «Giovanni, che fai?», gli gridò. Ma quello gli scaricò addosso altri colpi di pistola, ammazzandolo sul colpo. La guardia giurata aveva 45 anni. Ma la scena raccapricciante fu vista anche dalla moglie di Comaianni e da Carmelo, il figlio più grande, che corse subito a prendere il fucile per sparare agli assassini del padre. Ma fu fermato dalla madre, mentre i due killer si allontanavano a passo svelto.
«Ad ammazzare mio marito è stato Giovanni Pasqua insieme a Luciano Liggio!», disse Maddalena Ribaudo alle forze dell’ordine. E teneva stretti i suoi cinque figli: Carmelo di 22 anni, Emanuele di 19, Marianna di 16, Giuseppa di 13 e Calogero di appena 10 anni. Una vera donna-coraggio, che, insieme a tante altre di cui ci parla la storia, sfata il mito della Sicilia omertosa. Al coraggio di Maddalena, però, non seguì quello dello Stato, che non diede credito alla testimonianza di una vedova e, alla fine del ’49, il procedimento penale si concluse a carico di ignoti. Poi, la svolta. I carabinieri arrestarono Giovanni Pasqua, che confessò il delitto. «Io e Luciano – disse ai carabinieri – abbiamo atteso Comaianni nascosti a pochi passi da casa sua. Appena apparso sulla porta gli abbiamo sparato. Avevamo già provato la sera precedente, rinunciando poi all’ultimo momento. Comunque, è stato Liggio ad insistere per la liquidazione della guardia: gli bruciava ancora la storia della denuncia e voleva assolutamente vendicarsi». Anche Vito Di Frisco, il complice di Liggio nel furto dei covoni di grano, confermò quella versione. «Lucianuzzu non trovava pace e parlava continuamente di vendetta. Giurava e sacramentava che gliel’avrebbe fatta pagare a quei bastardi». Ma la testimonianza della vedova, che, difesa dall’avv. Francesco Taormina, si costituì parte civile, la confessione di Pasqua e le  dichiarazioni del Di Frisco non bastarono a far condannare gli assassini. Come da manuale, infatti, Giovanni Pasqua davanti ai giudici ritrattò tutto, sostenendo che la confessione stragiudiziale gli era stata estorta con la violenza dai carabinieri. E la Corte d’Assise di Palermo, con sentenza del 13 ottobre 1955, procedette all’assoluzione per insufficienza di prove sia di Luciano Liggio che di Giovanni Pasqua. Il 18 febbraio 1967, dopo altri 12 anni, la Corte di appello di Bari rigettava l’appello del pubblico ministero e confermava la sentenza di proscioglimento di primo grado. I giudici demolirono le accuse della moglie del Comaianni, perché «non erano coerenti» e costellate da «reticenze, contraddizioni e incertezze».

Articolo pubblicato su La Sicilia del 5 Aprile 2009

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