sabato, ottobre 05, 2019

PARLIAMONE. Leggere ed interpretare un territorio per uno sviluppo sostenibile e democratico


di PIER GIUSEPPE SCIORTINO
L’uomo è curioso, il bimbo apre gli occhi e comincia a scrutare intorno, vede oggetti, luce, spazi poi cerca di mettere tutto in relazione al tempo: ora, prima, dopo. Il tempo, la storia, le tracce che la stessa imprime nel presente è realtà, poi la mente inizia a proiettarsi oltre, il futuro, i progetti: essenza dei desideri. Bene, il territorio è ciò che ci sembra di diritto appartenerci e siccome non siamo i soli ad abitarlo dobbiamo inevitabilmente considerarlo come qualcosa da condividere, per condividere qualcosa ci vogliono le regole e le regole sono scritte assieme ed assieme eleggiamo dovremmo eleggere il legislatore.


Se pensiamo al territorio come un enorme contenitore di risorse utili, allora la nostra mente va dritto a quelle che pensiamo di utilizzare (o peggio sfruttare) con minore spreco di energie e con minore spesa; così facendo operiamo in maniera miope, vedremo ciò che ci serve oggi, subito, forse arriveremo a domani, utilizzeremo le risorse superficiali (spesso le non riproducibili); non abbiamo progettato, pianificato, e ciò che è grave non abbiamo pensato al futuro: Cosa ne rimarrà e come sarà questo territorio per le generazioni future?

Il concetto della “sostenibilità dello sviluppo” in sintesi è l’attesa dello sviluppo del territorio; il guardare alle sue risorse come valori, risorse da utilizzare e non sfruttare, quindi da renderle riproducibili. Esse vanno individuate nel processo pianificatorio per lo sviluppo dei territori.

Da qui il ragionamento non può non essere anche di valenza etica: siamo gli amministratori dell’ambiente/territorio, delle sue risorse, da trasferire alle generazioni future nello stato attuale o addirittura migliore attraverso la progettazione; abbiamo ereditato e dobbiamo lasciare in eredità un patrimonio non nostro ma dell’umanità, sia essa del passato, del presente o del futuro.

Ecco “la sostenibilità dello sviluppo” valore universale, ovvero, talmente vero che deve essere considerato tale da qualsiasi punto di vista lo si guardi.

Il credente vede tutto il creato come dono di Dio (i figli “generazioni future” lo sono); l’ambiente, il territorio sono doni da curare perché da lasciare ai figli che stanno nella stessa scala di valori: il Creato. Il credente nel suo processo ragionato religioso da un valore etico alla risorsa ambientale/territoriale.

Il laico vede il territorio come uno spazio sociale, le sue risorse hanno quindi un valore nello scambio, lo scambio deve essere regolamentato da processi democratici e solidali, quindi la risorsa va tutelata e trasferita alle generazioni future. Il laico nel suo processo politico ragionato riconosce un valore etico alla risorsa ambientale/territoriale ma aggiunge un valore: quello storico, la memoria dei fatti umani, delle azioni sociali e culturali, della politica nel senso puro.

Ma cosa sono le risorse territoriali, sono tutte quelle che il territorio ci racconta, quindi vanno lette, interpretate, relazionate per individuare l’occasione di sviluppo sociale nella rigorosità democratica che ci offrono.

Penso ad un percorso di studio del territorio che va fatto individuando le risorse per caratteristiche analoghe, per qualità, per fatti, valori economici. Immaginiamo di segnarle su più fogli trasparenti e di sovrapporli l’uno sopra l’altro su una mappa del territorio che non rappresenti i segni dell’uomo che la storia pian piano ha lì inciso.

Un esercizio di scomposizione e di ricomposizione ragionata, che con sensibilità analitica si può realizzare.

Scomponendo si valutano e si catalogano le risorse per livelli, strati (i layer che software di grafica tecnica utilizza per sovrapporre informazioni).

Si individua il livello dell’archeologia e di tutti gli interventi antropici nel territorio (quindi l’agricoltura, la trasformazione dell’ambiente da utilizzare per la produzione agro alimentare, fabbisogno vitale) e così via.

Chiaramente la prima cosa che ci viene in mente per continuare nel ragionamento è la storia, perché la storia umana lascia segni indelebili (città, infrastrutture, architetture isolate ed opere d’arte ed artigianali in genere, coltivazioni cicliche e/o secolari); insomma il territorio a quel punto diventa una creatura, un essere vivente, che si modifica e si sovrappone a se stesso in un sistema di relazioni orizzontali e verticali, si prospetta al futuro per il naturale processo evolutivo di chi lo abita. Il territorio letto così a momenti ci sembra vecchio ed abbandonato, in altri adulto e produttivo, altri ancora giovane con lunga prospettiva di vita; questo intendo per relazioni verticali ed orizzontali.

Ci sono due discipline diverse l’una dall’altra che studiano il territorio con una metodologia analoga: la geologia e l’archeologia. Partono leggendo per strati sezionando verticalmente il loro oggetto di studio, ma l’archeologia va oltre, seziona, intercetta la traccia della storia scopre una parte orizzontalmente per farla leggere (offrirla ai posteri), ritorna a sezionare verticalmente fino a trovare l’alto strato, ne scopre una parte per continuare a far leggerne la scoperta e così via. Questo è tecnica canonica delle campagne di scavi archeologici con diversi giacimenti stratificati, nella sostanza è il riconoscere la storia quale bene culturale ed il bene culturale non è nostro è della storia, anche quella che dovrà avvenire. La storia rappresenta l’immortalità dell’umanità.

Già dagli anni 90 si è dato valore ai beni culturali attraverso la scuola del territorialismo, essa ha spostato la focalità dalla convinzione che si potesse fare sviluppo con grandi operazioni urbanistiche (l’imposizione del potere umano circoscritto nel suo tempo), alla presa di coscienza che i beni culturali che sono risorse collettive (i beni dell’umanità senza tempo). Vanno individuati tutelati e messi in “rete” per uno sviluppo sostenibile dei territori.

Gli studi antropologici hanno offerto un grande contributo sull’individuazione delle risorse culturali del territorio; l’arte, gli artisti locali, l’architettura minore e le sue caratteristiche costruttive, le tecniche di coltivazione agricola e la trasformazione in alimenti, l’eno/gastronomia e quant’tanto altro riferibile all’identità culturale dei territori (nell’accezione sociologica del termine).

La conoscenza diventa essa stessa occasione di sviluppo: l’informazione, la formazione, la presa d’atto del valore del proprio patrimonio quale risorsa propria; la risorsa propria intesa quale occasione di sviluppo credo sia l’unico antidoto contro l’emorragia delle menti e braccia giovanili che sta svuotando i nostri territori, così andando avanti, faranno archeologia (nell’accezione negativa del termine): strutture pubbliche come ospedali, scuole, uffici periferici per servizi alla collettività sempre più vecchia ed improduttiva.

La pianificazione deve partire dalla conoscenza, deve essere prima di tutto comunicativa ancor prima di essere partecipativa. Il processo democratico, assolutamente legittimo, della pianificazione non può essere partecipativo della base se essa non è informata, istruita sulle potenzialità proprie e delle proprie risorse territoriali.

La mia metafora dell’archeologia non avrebbe significato se la cultura non fosse una concreta presa di coscienza, una concreta azione collettiva e democratica, una offerta della propria storia al futuro, offerta dovuta e non voluta.

Se la storia è sempre scritta dai vincenti e le basi sono sempre state perdenti, solo attraverso la conoscenza la base si potrà riscattare, emancipare, autodeterminarsi nel teatro della storia la cui difesa/offerta è proprio “l’armatura culturale del territorio”, dove l’armatura è metafora di difesa e nel contempo struttura (come nel cemento armato) che ne garantisce identità propria e futuro.

Pier Giuseppe Sciortino

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