martedì, ottobre 01, 2019

IN RICORDO DEL GIUDICE CESARE TERRANOVA

Cesare Terranova e Luciano Liggio in un disegno di Bruno Caruso

di A. BOLZONI e F. TROTTA
Sono passati quarant'anni. Era la fine di una di quelle estati infami di Palermo e, fra le vie della città nuova, la mafia sparava ancora. Un altro “delitto eccellente”.
Dopo il giornalista Mario Francese, dopo il segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina, dopo il capo della squadra mobile Boris Giuliano, il 25 settembre 1979 era toccata al giudice Cesare Terranova. Ucciso insieme al fedele maresciallo di polizia Lenin Mancuso che era la sua ombra, ucciso due giorni prima del suo ritorno nel tribunale palermitano come consigliere istruttore.
INTERVENTI SU TERRANOVA DI: ALDO RIZZO ANNA POMAR, SANDRO PERTINI, ROCCO CHINNICI, EMANUELE MACALUSO, SALVATORE PAPPALARDO, LEONARDO SCIASCIA

Un omicidio di tipo “preventivo”. Faceva paura il suo arrivo in Sicilia. Era stato il giudice che fra il 1955 e il 1960 aveva “scoperto” i Corleonesi, prima fra tutti Luciano Liggio ma anche quei due "contadini” cresciuti ai piedi della Rocca Busambra che avrebbero conquistato un quarto di secolo dopo una sinistra notorietà nel mondo: Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Li trascinò tutti a giudizio per associazione a delinquere di tipo semplice (l'associazione mafiosa allora non esisteva per la legge italiana) e, come tradizione giudiziaria voleva , vennero tutti assolti per insufficienza di prove.
Terranova era uno di quei magistrati - pochi, pochissimi in verità - che aveva compreso sino in fondo e già allora la pericolosità della mafia siciliana.
Uomo colto, appassionato, fu deputato come indipendente di sinistra nella lista del Partito Comunista nel 1972 e nella successiva legislatura fu rieletto e nominato segretario della Commissione Parlamentare Antimafia. Proprio quella di Pio La Torre, quella della straordinaria relazione di minoranza che ancora oggi è il primo documento da studiare per capire le mafie.
Se in quel lontano settembre Cesare Terranova fosse davvero diventato consigliere istruttore a Palermo e se Gaetano Costa fosse rimasto procuratore capo della repubblica (anche lui ucciso nell'agosto del 1980), la storia di quel Tribunale con due uomini così forse sarebbe stata un'altra ancora prima del pool di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Ma quei due magistrati erano “troppo” per Palermo e per la Sicilia, troppo onesti, troppo rigorosi, troppo lucidi. Da eliminare a tutti i costi.
Per anni e anni si è alimentata l'idea che a volere la morte di Cesare Terranova fosse stato solo Luciano Liggio per consumare la sua vendetta. Una visione molto semplicistica e restrittiva, banale.
Terranova è stato uno dei bersagli di un piano politico-mafioso che l'anno successivo - il giorno dell'Epifania - avrebbe portato anche all'uccisione del Presidente della Regione Piersanti Mattarella e poi all'assassino di tanti altri poliziotti e carabinieri. Sino all'autobomba del luglio 1983, quella che fece saltare in aria anche il suo successore: Rocco Chinnici. Una strategia della tensione che dal fronte Nord del Paese si era spostata al fronte Sud, nell'isola.
Figura troppo spesso dimenticata dalla propaganda antimafiosa come se fosse una vittima di serie "B”, vogliamo dedicare a lui questa serie del Blog con la testimonianza dei familiari e con il ricordo di qualche suo collega. Ma apriamo la serie riprendendo i testi di un piccolo volume che gli hanno dedicato nel 1982 (“Cesare Terranova in memoria") con il patrocinio dei comuni di Castellana Sicula, Petralia Soprana, Petralia Sottana, Polizzi e Scillato, tutti paesi della Madonie, le radici di Cesare Terranova.
Il volume ha una prefazione preziosa di Leonardo Sciascia. Ci sono una dozzina di interventi, firmati anche dal pittore Bruno Caruso, da Emanuele Macaluso, dal cardinale Salvatore Pappalardo, dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini e dalla Presidente della Camera dei Deputati Nilde Jotti. C'è anche qualche scritto del giudice, ci sono un paio di interviste rilasciate alla vigilia della sua morte, c'è il testamento di Cesare Terranova consegnato alla moglie Giovanna. E i ricordi di tre nipoti. Un omaggio all'uomo e un omaggio al magistrato.
(Hanno collaborato Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Sara Carbonin, Ludovica Mazza, Alessia Pacini, Asia Rubbo e Valentina Nicole Savino)

Una voce inascoltata
di Aldo Rizzo

I miei primi incontri con Cesare Terranova risalgono ai tempi in cui ero uditore giudiziario al Tribunale di Palermo.  Allorché fui assegnato all'ufficio di istruzione per compiere il tirocinio, chiesi di lavorare con Cesare Teranova, che già conoscevo per fama.
Mi aspettavo un magistrato duro, severo, poco incli­ne al dialogo ed invece venne fuori, sin dai nostri primi incontri, l'immagine di un uomo aperto, dotato di gran­de umanità, pronto alla discussione. Trovai in Cesare Terranova un uomo giusto, leale, comprensivo con i deboli, inflessibile con i potenti e un sincero amico, di­sposto a dedicare parte del suo tempo prezioso per tra­smettere a me uditore l'alto concetto che egli aveva del­ la funzione del giudice.
I nostri contatti si diradarono allorché egli lasciò l'uf­ficio di istruzione di Palermo per ricoprire l'incarico di Procuratore della Repubblica a Marsala.
Ripresi a frequentare Cesare Terranova quando egli fu eletto al Parlamento e svolse un ruolo di primaria importanza nella Commissione giustizia della Camera dei Deputati e nella Commissione parlamentare di inchie­sta sulla mafia.
Era il Cesare di sempre. Volle numerosi incontri con me e con altri magistrati per sentire il nostro parere su
sue proposte, su sue iniziative parlamentari che erano sempre nel senso di garantire al massimo la credibilità e l'efficienza delle Istituzioni, e della Magistratura in par­ticolare, e di assicurare, nel più ampio rispetto dei dirit­ti di libertà dei cittadini, la capacità dello Stato a com­ battere tutte le pili gravi forme di criminalità, prima fra tutte la mafia.
Nei tanti discorsi che avemmo, affiorava spesso in Cesare Terranova una preoccupazione che i tempi si so­no incaricati di dimostrare quanto fosse fondata. Egli aveva netta la consapevolezza che la mafia, se non fosse stata prontamente ed adeguatamente affrontata, ogni giorno di più avrebbe aumentato le dimensioni delle sue attività, dei suoi interessi, la sua penetrazione nei setto­ri più delicati della vita economica ed istituzionale, avrebbe aumentato il suo potenziale criminoso, la sua tracotanza sino al punto di sfidare lo Stato in tutte le sue  articolazioni.
Una preoccupazione che egli manifestò in Parlamen­to innanzitutto. Ma il suo monito rimase inascoltato come se non fosse la meditata riflessione di chi aveva una profonda conoscenza del fenomeno mafioso, e una chiara percezione della sua pericolosità, attraverso la notevole esperienza che aveva maturato con l'istruzione di numerosi e gravosi processi di mafia.
A me che adesso ripercorro quella strada che fu la sua, è dato di constatare, di toccare con  mano, quanto
sia stata notevole l'impegno profuso in Parlamento da Cesare Terranova, quanto fosse grande la sua sete di giustizia, quanto egli abbia lottato, anche in quella se­de, con fermezza, lucidità e concretezza di proposte, per richiamare l'attenzione del Parlamento e del Gover­no sulla gravità e pericolosità del fenomeno mafioso.
Per questo suo impegno Cesare Terranova è stato uc­ciso.
La mafia lo ha vilmente e barbaramente assassina­to perché era un simbolo, un chiaro punto di riferimen­to per chi crede nei valori della giustizia, per chi non si rassegna a considerare la cancrena mafiosa un male inestirpabile della nostra terra di Sicilia. Ed era un simbolo perché la sua era una battaglia solitaria, portata avanti nella completa inerzia e indifferenza di chi aveva re­ sponsabilità di governo.
A tutti noi che gli fummo vicini, che crediamo nei va­ lori di libertà e democrazia e nel riscatto morale della nostra isola, non rimane che un preciso dovere: quello di continuare il suo lavoro, con la stessa tenacia, con lo stesso vigore.
Questo è il modo migliore di onorare la memoria di Cesare Terranova, e, con la sua, quella di Giuliano, di Russo, di Basile, di Costa, di Mattarella; di La Torre, di Dalla Chiesa e di tutti coloro che hanno pagato con
la vita il loro impegno contro la mafia, al servizio del popolo siciliano




La sua ultima intervista sulla mafia

di Anna Pomar

 Cesare Terranova, magistrato di Corte  d'Appello, già procuratore capo a Marsala, già deputato al Parlamento italiano come indipendente nelle liste del Pci, componente della commissione antimafia, dopo sette anni di lontananza dalla vita giudiziaria torna a presiedere la seconda sezione della Corte d'Appello di Palermo. A lui, come è noto, si deve la paternità di alcuni fra i piu grossi processi di mafia degli anni che vanno fra il '63 e il '68.
Ma la mafia in questi ultimi anni ha cambiato obiettivi, ha cambiato metodi, ha cambiato struttura. Di questo vorremmo parlare col presidente Terranova, considerato uno fra i mag­giori esperti del problema mafioso, in occasione del suo rientro nelle aule del Palazzo di Giustizia.
Presidente Terranova, che ne pensa lei di questa nuova, vio­lenta esplosione  di criminalità  mafiosa?
«L'accentuarsi di certe forme di criminalità mafiosa rientra in un problema piu generale della diffusione  della criminalità in tutta Italia. Qui la mafia, altrove i sequestri, rapine o altro. Purtroppo questo è un dato della società del benessere, del consumismo che come ogni cosa presenta i suoi aspetti positi­ vi e quelli negativi. In una società socialmente ed economica­mente evoluta (lo possiamo constatare in America, in Inghil­terra cosi come in Svezia) la criminalità ingigantisce».
Si parla oggi di nuova mafia. Che cosa è la nuova mafia, in cosa si differenzia dall'antica?
«Anche  nel '63 si parlava  di nuova mafia.  Ma la mafia è una, ed  è sempre  la stessa.  Come fenomeno   delinquenziale, come costume, non  muta.  Quello  che  cambia sono i metodi, l'inserimento  in una  certa  realtà  sociale ed  economica.  Po­tremmo dire che si muove secondo  le esigenze  del momento. Una volta avevamo la mafia rurale. Nel dopoguerra vediamo la mafia fare il suo ingresso nel mondo politico, e nel mondo degli affari. Poi abbiamo la mafia dell'edilizia, quando comin­cia a prendere consistenza il fenomeno dell'urbanizzazione. Un tempo la mafia delle campagne controllava la città (Cascio Ferro era solo il capomafia di Bisacquino ma esercitava la sua influenza su Palermo) in seguito quella della città si rivolgeva all'entroterra».
Quale connotazione  darebbe alla  mafia cosiddetta
«nuova» ?
«È difficile dirlo. Come ho già detto, la mafia è allineata con i tempi. Furti, scippi, rapine prosperano nei rioni cittadini sotto l'ala del capo mafia locale. E chi non sta alle regole pa­ga, come si è visto piu volte, in occasione di spietate esecuzio­ni di giovani pregiudicati. Ma la piu grossa connotazione che io darei alla mafia di oggi è quella degli appalti. L'appalto del­ le opere pubbliche - e non tanto l'appalto vero e proprio ma tutto quanto c'è dietro: forniture, cottimi, guardiani - è cer­tamente, al momento, l'argomento piu interessante. Destinato a svilupparsi ancora di piu negli anni futuri».
Ma la droga, non è anch'essa in espansione?
« La droga intanto non è un fatto di tutti. È limitata a grup­pi molto elevati ed altamente specializzati. Il traffico della droga comunque non è un fatto nuovo per  la mafia siciliana, che lo ha sempre controllato. Dall'America si fidavano solo dei mafiosi siciliani, delle organizzazioni mafiose siciliane che provvedevano allo smistamento della droga che giungeva nella Francia del sud e, in Spagna, verso gli Stati Uniti. Quello che c'è di nuovo è il consumo locale della droga, una volta qui da noi ignorato. Ma io credo che in questo campo, al momento, esistano pochissime  conoscenze».
Quali sono gli elementi nuovi del costume mafioso?
«L'impiego dei killer, per esempio.  Una volta le esecuzioni erano opera dei gregari. Ricordo, ad esempio, ai primi del '63 la sparatoria alla pescheria di via Empedocle Restivo. Il killer era certamente noto. Fu quasi riconosciuto. E precedentemen­te negli anni  '50, Eugenio  Ricciardi fu ucciso  da Angelo La Barbera  e Gaetano Calatolo,  meglio  noto  come  Tano Alati, che erano allora solo dei giovani gregari. Di li poi ebbe inizio la loro ascesa».
E il loro declino da quale data?
«Fra il '63 e il '68 si verifica una interruzione del fenomeno mafioso in Sicilia. Forse perché i grossi processi che si celebra­no in quegli anni portano inevitabilmente alla eliminazione dei personaggi piu noti, quasi tutti arrestati o latitanti. Una interruzione che si conclude però a Catanzaro, con le assolu­ ioni a tutti note. Da quel momento si verifica  una specie di movimento  tettonico, come  quello dei terremoti, direi,  di as­sestamento.
I vecchi quadri dirigenti tentano il ripristino della loro autorità, ma non hanno piu la forza di un tempo, e non riescono quindi a tenere sotto controllo la situazione. Ai primi del '70 la vecchia guardia o è stata eliminata o è messa da par­ te.
L'elenco degli uccisi si allunga: Michele Cavatajo (viale La­zio), La Barbera, Sirchia, Di Martino (luogotenente di Torret­ta), Cancelliere, Matranga (ucciso a Milano). Nicoletti, dopo un attentato nel quale resta ferito,  esce di scena.  Si verifica cosi un  totale  sconvolgimento degli equilibri.
L'edilizia, fra l'altro, non è piu un settore portante. Si delinea il miraggio de­gli  appalti delle  opere  pubbliche.  E  qui puntano  le  nuove leve».
Presidente Terranova che ne pensa della «lupara bianca »? Una volta la mafia uccideva. Perché oggi sequestra senza dare pili notizie degli scomparsi?
«Anche nel passato esisteva la lupara bianca. Ma era indub­ biamente un fenomeno  limitato. Ricordo,  ad  esempio,  intor­no al '54 '55, la scomparsa dei fratelli Prester. I Prester erano nomi ben noti a Palermo.  Una mattina partirono  in macchina per  Messina dove c'era un processo a loro carico, ma non vi giunsero mai. Non se ne seppe piu nulla, mai. Fu il primo caso che fece molta impressione. In seguito scomparvero altri: Pelleri­to, Mansueto, Marino, quest'ultimo davanti al Palazzo di Giu­stizia. Aveva parlato con l'avvocato  Pugliese, poi salì in una macchina dove l'attendevano due persone e si perdettero  per sempre le sue tracce. Ricordo che sparirono anche dei perso­naggi del corleonese, Governale, Trombadori, Listi ... Ma non erano certo tanti, come oggi. Perché  la lupara bianca? Certo una esecuzione è molto piu  semplice e piu immediata. Me lo sono chiesto tante volte anch'io. Spero di potere approfondire il problema ».
Presidente, vorrei farle osservare che i killer non corrono molti pericoli. Uccidere, i fatti lo hanno dimostrato, finora non è stato piu rischioso di quanto non lo sia fare sparire un cadavere.
«In effetti è cosi».
Presidente, perché tanti delitti impuniti?
« Ci sono pochi informatori, la gente non collabora alle in­dagini. E la polizia oggi ha pochi poteri, non riesce piu a otte­ nere quello che otteneva una volta».
Perché tante assoluzioni?
« Troppi rinvii a giudizio. Ma d'altro canto se ci sono dubbi sulla colpevolezza o sull'innocenza il magistrato deve per for­za rinviare a giudizio perché decida il tribunale. A tutto ciò si potrebbe ovviare solo con la auspicata riforma. L'istruzione, a mio parere, dovrebbe essere solo formale e il processo poi far­ si nel corso del dibattimento. Perché oggi si verifica l'assurdo che si fanno due processi veri e propri. L'istruzione dovrebbe invece essere solo la preparazione degli elementi pro e contro, da sottoporre al tribunale».
Un'ultima domanda, presidente. Si riuscirà mai a debellare il fenomeno mafioso in Sicilia? Lei è stato componente dell'Antimafia, ma i risultati della commissione non hanno soddisfatto l'opinione pubblica. E stato tutto inutile?
«L'antimafia ha concluso il suo mandato presentando una serie articolata di proposte che riguardavano il settore giudi­ziario, il settore economico (mercati, licenze ecc.), il settore amministrativo (appalti, concessioni). Ma queste proposte an­davano poi sviluppate. Ed invece dal gennaio 1976, sono ri­maste inutilizzate. Le forze politiche non hanno creduto di do­versene servire. Il materiale c'è, è ricco ed interessante. Perio­dicamente ne vengono pubblicati volumi.  Ma  tutto  finisce qui. Fino  a quando non verrà  qualche studioso  inglese che «scoprirà» le conclusioni dell'antimafia e le utilizzerà per i suoi lavori».
Nessun  ottimismo  allora per  il futuro?
«lo sono ottimista per temperamento. M a purtroppo c'è da constatare che il parlamento italiano non funziona più. Esi­stono solo le segreterie dei partiti. Non è facile tuttavia dare inizio ad un rinnovamento degli organismi democratici. Non è facile ed è pericoloso pensare di toccare la Costituzione nei suoi punti più  delicati».



Uomo di grande coraggio civile

di Sandro Pertini
Con Cesare Terranova fummo colleghi in Parlamen­to nella VI e VII legislatura. Quale Presidente della Camera seguivo con particola­re attenzione i neoeletti perché ho sempre pensato che tanto più le istituzioni democratiche possono consoli­darsi quanto è maggiore il numero dei cittadini integri e preparati che scelgono di servire la Repubblica al me­glio delle loro possibilità.
Compresi subito che la perso­nalità di Cesare Terranova, magistrato della Corte di Cassazione, eletto nel 1972 in entrambe le circoscrizio­ni della Sicilia, avrebbe arricchito la Camera di un'espe­rienza umana e professionale preziosa.
Terranova, an­zitutto, era Uomo di grande coraggio civile e di esem­plare onestà. Aveva, quale giudice istruttore presso il Tribunale di Palermo, affondato il bisturi nella piaga purulenta della mafia, senza riguardi per alcuno; nuo­vamente si era imposto come magistrato scrupoloso ed impavido quale Procuratore della Repubblica a Marsa­la.
Egli accettò di proseguire la lotta contro il crimine organizzato nella Commissione d'inchiesta sul fenome­no della mafia in Sicilia, alla quale dette un contributo che giudico determinante per la conoscenza dell'am­biente sociale e politico, delle forze oscure e dei legami internazionali che alimentano il cancro della mafia.
Cesare Terranova fu uomo di alto sentire e di grande cultura: amava profondamente la sua Sicilia e viveva con angoscia la fase di trapasso che l'isola attraversava dall'economia del feudo e rurale all'economia industria­le e collegata con le grandi correnti di traffico europeo e mediterraneo.
Ma egli era anche animato, oltre che da un virile coraggio, anche da infinita speranza, che sca­turiva dalla sua profonda bontà d'animo: speranza nel futuro dell'Italia e della Sicilia migliori, per le quali il sacrificio della  sua vita, fervida integra ed operosa, non è stato vano.
Ancor una volta così la violenza omicida della delinquenza organizzata ha colpito uno degli uomini migliori, uno dei figli più degni della terra di Sicilia.


Quell'incontro nel 1963

di Rocco Chinnici
Conobbi Cesare Terranova nell'ormai lontano 1963. Ero allora Pretore in un Comune della provincia di Tra­pani; a seguito di gravi fatti delittuosi (omicidi, rapine) mi ero occupato, nella fase delle indagini preliminari di due associazioni per delinquere, in una delle quali figu­rava uno dei piu grossi personaggi della mafia del tra­panese.
Avevo seguito attraverso la stampa l'opera te­nace e coraggiosa  di Cesare Terranova, e pur senza averlo conosciuto, nutrivo per lui sincera ammirazione.
Nel 1963, credo nel mese di maggio, era pervenuta in Pretura  da  parte  di  Terranova,  una  richiesta  di  atti istruttori. Ritenni necessario incontrarmi con lui per dei
chiarimenti.
L'incontro avvenne nel suo ufficio, a Palazzo di Giu­stizia. Ero, in certo modo, imbarazzato; Terranova, al culmine della notorietà, io, modesto pretore di una piccola Pretura.
Gli diedi del Lei. Egli, con cordialità e con naturalez­za, mi diede del tu e mi chiese di dargli del tu.
Venuto a Palermo, nello stesso ufficio, stabilimmo un rapporto di cordialità e di amicizia. L'uomo dall'aspetto severo, aveva una carica di umanità che conquistava; e perciò non esitai durante l'istruzione di uno dei piu gravi processi dell'ultimo ventennio, a chie­dergli qualche consiglio.
Lo ricordo e lo ricorderò, finché avrò vita, come uno dei migliori magistrati che ho avuto modo di conoscere. Nel Suo ricordo, assieme ai giudici dell'Ufficio istruzio­ne al quale egli era tanto legato, continueremo la Sua azione per l'affermazione dei principi di giustizia e di ci­viltà.




Un omicidio “preventivo”

di Emanuele Macaluso

Ricordo sempre quel giorno del 1972 che incontrai a casa sua Cesare Terranova per offrirgli la candidatura come indipendente nella lista del PCI per la Camera. Sapevo che egli non era uomo impegnato nella battaglia politica e che certamente era distante dalle posizioni ideologiche del Partito comunista. Ma sapevo anche dai suoi comportamenti del suo eccezionale impegno civile e morale e della sua determinazione per fare trionfare la giustizia.
Proprio in quei giorni il suo nome era su tutti i gior­nali per la tragica vicenda delle tre bambine scomparse e uccise a Marsala dove Terranova esercitava la funzio­ne di Procuratore della Repubblica e dove come tale condusse, con grande sagacia e umanità l'indagine che portò alla identificazione dell'assassino.
Ma Cesare Terranova a Palermo era ben noto da tempo come il giudice istruttore dei processi più clamo­rosi e più difficili contro la mafia.
Io non lo conoscevo personalmente a quel tempo, ma ero rìmasto colpito dalla lettura della sentenza istruttoria con la quale egli aveva incriminato il potente e feroce gruppo dei La Bar­bera. Per la prima volta con questa sentenza un magi­strato ha indicato nel comune di Palermo il centro d'in­teressi che alimentava la speculazione edilizia e mafio­sa.
Terranova restò sorpreso dalla mia proposta, ma ca­pii subito che apprezzava il fatto che un grande partito operaio si rivolgesse a uomini come lui per condurre al­la Camera, in piena indipendenza, la stessa battaglia che aveva condotto nelle aule giudiziarie.
Terranova assolse per due legislature il suo mandato parlamentare con scrupolo e capacità da tutti riconosciuti. Ma restava il giudice Terranova. Anzi, tutti con­tinuavano a chiamarlo solo «il giudice Terranova», quasi come un simbolo dell'incarnazione della giustizia nella sua accezione piu ampia e piu profonda.
Cesare Terranova è stato assassinato per il suo impe­gno politico e per quello che avrebbe fatto in uno dei più alti e delicati uffici giudiziari di cui si apprestava ad assumere la responsabilità. Egli conosceva bene, molto bene i nemici che combatteva e quindi i rischi che corre­va. Ma mai, nemmeno per un momento, pensò di tirar­si indietro.




Il male di Palermo è profondo

di Salvatore Pappalardo
Confesso un certo imbarazzo nel prendere la parola per ripetere amare espressioni altre volte pronunziate; il mio non vuole e non può essere un parlare prevedibile e scontato di cerimonia funebre ma l'eco di una voce divi­na che tutti richiama, esorta e giudica, secondo le no­stre rispettive responsabilità. È però anche una voce che ci consola e conforta infondendo in noi, se credenti, la suprema certezza che nessuna delle esperienze della vi­ta, anche le piu tristi e sacrificanti, resta inutile e vuota quando è il prezzo pagato per l'adempimento di un pro­prio dovere; la Divina Giustizia è la sola che può vera­ mente tener conto di tutto ed attribuire a ciascuno il merito del bene compiuto.
Sono qui dinanzi a noi le bare di due uomini barba­ramente assassinati nell'adempimento del loro dovere: l'Alto Magistrato Terranova che riprendeva, dopo un intervallo dedicato ad attività politica, il suo posto di sollecito ed impegnato tutore dell'osservanza delle leggi dello Stato e della sicurezza, del cittadino con particola­re competenza e sagacia nel perseguire il fenomeno del­la criminalità mafiosa; il sottufficiale di Pubblica Sicu­rezza, Maresciallo Mancuso che, addetto da anni alla personale tutela del giudice è purtroppo diventato insie­me con lui vittima preordinata della rabbiosa reazione dei criminali.
Ad entrambe le famiglie vogliamo esprimere la nostra vivissima partecipazione al loro dolore: saranno le pa­ role che riusciremo a dir loro, sarà l'attenzione dovero­sa ai loro bisogni, sarà la grata memoria che serberemo del sacrificio dei loro cari, sarà l'assicurazione della no­stra preghiera a Dio « che atterra e suscita, che affanna e che consola», nel cui regno di giustizia, di amore e di pace trovano accoglienza gli spiriti retti e si placa il tumulto scomposto dei sentimenti e delle vicende umane.
Pur vivendo di questa speranza noi siamo impegnati, proprio in forza della Parola di Dio e della nostra fede in essa, ad operare instancabilmente durante la vita in questo mondo perché un po' di giustizia, di pace e di amore si realizzino anche qui. Come cittadini e come cristiani dobbiamo proporci e realizzare una trasformazione progressiva di quanto è ingiusto e difettoso nella società per renderlo conforme al piano di Dio: impresa titanica che occorre però affrontare decisamente.
È questo certamente un compito della Pubblica Auto­rità, dello Stato e dei suoi Organi ma è anche un dovere che, in diversa misura incombe su tutti i membri della Comunità nazionale. Dinanzi a questi luttuosi e preoccupanti avvenimenti non possiamo fermarci a ge­neriche o generali proteste e a sterili  lamenti ma occorre passare ad una qualche forma di azione inquadrata in una quanto piu completa visione del complesso proble­ma.
Sappiamo bene che non sono possibili  soluzioni sem­plicistiche ed immediate. Il male è talmente profondo ed incarnato che le sue velenose radici affondano in un terreno dove si intrecciano da secoli - e vengono talora coltivati - torbidi interessi, espressioni dell'egoismo e della prepotenza umana disancorata da ogni visione morale e religiosa della vita.
Non interventi immediati violenti sul corpo sociale ma tutta un'opera  occorre di educazione e di rieducazione, soprattutto nei riguardi delle giovani generazioni perché non assumano come modello e riproducano - magari aggravandole - ge­sta e comportamenti di spregiudicatezza e di violenza.
Questa,  in realtà , non  si manifesta  soltanto nei cla­morosi fatti del terrorismo politico o mafioso che stan­no  insanguinando l'Italia  tutta ma in tanti altri episodi delittuosi di cui è giornalmente costellata  la nostra cro­ naca. Si manifesta in tanta parte del costume pubblico e privato dove per far valere i propri veri o presunti diritti non si fa ricorso all'osservanza  e all'applicaz10ne delle leggi ma al proprio arbitrio, all'inganno,  alla forza di pressioni  e di intimidazioni varie ... I quartieri della vecchia Palermo, la cinta delle borgate,  le stesse parti  più cospicue della città sono teatri e vittime  di  tutta una serie di imposizioni, dI grassazioni, di intimidazioni che minacciano di disanimare ogni sana reaz10ne,  generan­do   al contrario   attività  emulative  da parte  di giovani tentati di risolvere per questa facile via i loro probiemi.
È necessario quindi che la lotta alla violenza, alla criminalità ed alla mafia parta da un'adeguata educazione dei bambini, dei ragazzi, dei giovani che vagano cosi numerosi disattesi o positivamente diseducati dalle loro famiglie. Occorre una politica scolastica che formi veramente questi giovani non alla protesta contro la società ma al loro inserimento in essa mediante il lavoro, un vero lavoro dignitoso, onesto e veramente produtti­vo. Occorre educare fin dai primi anni a sentire la voce della coscienza - che è voce di Dio - ed a vivere one­stamente nella libertà, nel rispetto degli altri ed anche nel rispetto di se stessi e di quei valori di cui ogni uomo è portatore.
L'indebolito peso della famiglia nell'educazione dei figli, l'incertezza delle riforme scolastiche e quindi  la crisi della scuola, il difficile assorbimento  dei giovani nel mondo del lavoro, la crisi delle campagne, l'illusio­ne del miracolo industriale, lo stimolo continuo di una società consumistica ed edonistica sono tutti elementi che fanno da sfondo e da matrice alla dilagante crimi­nalità  di ogni genere.
Con l'impegno di riaffemare l'osservanza delle leggi in sede giudiziaria, propria della Magistratura, il Dr. Terranova  aveva con lungo e lodevole curriculum raggiunto il grado di Magistrato di Corte di Cassazione, con la vigile attenzione a prevenire i delitti, propria della P.S. il Maresciallo Mancuso si era attirata tanta stima e considerazione. Entrambi erano generosi e operatori di pace sociale e promotori del Regno della Luce. Ma i fi­gli delle tenebre li hanno colpiti a morte. Vivano nella nostra memoria e nell'eterna e giusta Memoria di Dio.



Il coraggio e il “candore” di un giudice

di Leonardo Sciascia
Con l'assassinio del vice-questore Boris Giuliano, la mafia rompe quelle che esternamente potevano appari­re «regole del gioco » e che in effetti erano di convenien­za.
Uccidere un funzionario di polizia, un ufficiale dei carabinieri, un magistrato, non conveniva per un dupli­ce motivo: perché si scatenava una reazione, da parte delle forze dell'ordine, che poteva anche andare al di là delle garanzie  costituzionali e comunque eccezionale; e perché la sostituzione della persona assassinata con al­tra di uguale intendimento e capacità avveniva facil­mente e immediatamente.
Ad un certo punto, invece, la mafia scopri che l'eliminazione di una determinata per­sona lasciava, nelle istituzioni, un vuoto difficilmente colmabile e che la reazione delle forze di polizia e della magistratura inquirente colpiva sulla base di un'anagra­fe del fenomeno mafioso abbastanza invecchiata, non aggiornata. Quell'anagrafe, insomma, che era stata fa­ticosamente e annosamente messa in luce dalla commis­sione parlamentare d'inchiesta sulla mafia e che, ap­punto perché ormai nota, è impensabile non abbia pro­vocato dentro l'associazione allontanamenti, colloca­zioni a riposo (e per alcuni a riposo eterno) e altre misu­re di prudenza, di cautela. Senza dire degli anni che era­no passati e che, nell'interna mobilità della mafia, avranno certamente segnato ascese e cadute di cui diffi­cilmente, dall'esterno, ci si può  rendere conto.
L'assassinio di Giuliano è dunque da considerare co­me una svolta, come un nuovo corso. Un vecchio magi­ strato, le cui arringhe d'accusa nei processi mafiosi si possono considerare come saggi precisi ed acuti sul fe­ nomeno, mi disse una volta che i delitti della mafia erano quasi tutti «interni», che i delitti « esterni» avveniva­no soltanto difronte a pericoli sicuri ed immediati e che verso coloro che stavano dall'altra parte - polizia, ca­rabinieri, magistratura - gli interventi mafiosi non erano mai violenti, ma persuasivi e per tramiti di interessi e di amicizie; e aggiunse che, per quanto riguardava la magistratura, simili interventi mai si producevano a li­vello della inquirente, delle procure: si aspettava che il processo entrasse in fase istruttoria o addirittura in di­battimento, per intervenire.
In definitiva, la mafia non contava molto sulla possibilità di convincere o corrom­pere l'altra parte; prevalentemente puntava sulla «in­sufficienza di prove » - e con pazienza e senza mai ten­tare, con una violenza che sapeva inutile, di troncare, o accelerare verso il nulla di fatto,  il corso di un'indagine o di un processo.
L'uccisione di Giuliano inaugura inve­ce un diverso sistema: non gratuitamente, ma per calco­lo. E non sappiamo quale effetto si sia precisamente ot­tenuto: ma certo, per come era stato calcolato, ci sarà stato.
In questo senso, l'assassinio di Cesare Terranova as­sume addirittura carattere di prevenzione. Dopo essere stato in Parlamento per due legislature, Cesare Terra­nova stava per tornare al suo ufficio di magistrato. Fu assassinato, assieme al  maresciallo Mancuso che per anni gli era stato vicino, prima che vi tornasse: nella certezza che a Palermo, nell'amministrazione della giustizia, vi sarebbe stato un nemico accorto e impla­cabile della mafia; e, per di più, un nemico che, at­traverso l'esperienza di membro della Commissione Parlamentare d'inchiesta sulla mafia, aveva  acquisito una visione del fenomeno in tutta la sua complessità, in ogni sua  diramazione.
Bisogna dunque dire nettamente, non per insinuazio­ni e allusioni, che la catena di delitti che cominciando da Boris Giuliano arriva oggi al dottor Giaccone nasce soprattutto dal fatto  che la caduta dello spirito pubbli­co investe le istituzioni, quando da esse addirittura non si diparte, a tal punto che tra gli individui preposti a sorreggerle,  che scelgono di sorreggerle, coloro che inflessibilmente e fino infondo vogliono compiere il loro dovere restano come segnati, come segnalati, come iso­lati: quasi fossero oggetto, come si dice in gergo cine­matografico, di una « zumata ». E l'esempio piu esplici­to, piu preciso e rapido nel rapporto causa-effetto, lo abbiamo nel caso del procuratore  Costa.
Ma per essere stato implacabile e acuto nemico della mafia,  Terranova sarà sempre  ricordato. O almeno fin tanto che in questo nostro paese ci saranno  «dignitose coscienze e nette». Ma qui ed ora io voglio anche ricor­dare il suo essere giudice non solo nell'accusare  e nel colpire ma anche nell'assolvere,  nel liberare.
Due casi mi sono trovato a seguire da vicino in cui persone  indi­cate come colpevoli sono state da lui riconosciute, per come erano, innocenti. E non era facile.
Gli ci voleva il suo "candore” per arrivare a tanto, la sua capacità di far tabula rasa di prevenzioni e pregiudizi, la sua prontezza a cogliere, al di là delle apparenze,  gli elementi della verità. E  credo che il sentimento  in lui piu forte fosse  quello della compassione,  nel senso piu vero: di soffrire con gli altri, di soffrire con le vittime - di «pa­tire con quei che patiscono ». E molti giudici si possono ricordare duri a misura di giustizia; ma pochissimi, credo, capaci di «patire con quei che patiscono».
Da: mafie.bloautore.repubblica – attilio bolzoni

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