venerdì, giugno 08, 2018

In viaggio con don Luigi Ciotti. Vasco Rossi: "Ama gli ultimi, come me"


Gian Antonio Stella sul Corriere racconta la vita spericolata del sacerdote incendiario
Il primo che incendiò, tostando semi di zucca quand'era piccolo, fu un pagliaio. Da allora Luigi Ciotti non ha smesso mai. Infiammare le coscienze è il senso della sua vita. Per questo Vasco Rossi e lui si son presi: «Un fratello ritrovato. Due vite spericolate. Come sono tutte le vite che si lasciano guidare dall' inquietudine». Tanto da spingere il Blasco a voler introdurre lui il film «Così in terra» che racconta la storia del «prete più amato e più detestato» nel nostro Paese. Tutto cominciò, come racconta nella pellicola diretta da Paolo Santolini che andrà in onda venerdì sera su Rai3, con un fiocco e un calamaio. Nipote d'un mugnaio, «Pio Luigi Tabacchi, Moliner» (come ricorda la lapide), figlio d'un manovale della montagna bellunese più povera, spinto dalla miseria a emigrare addirittura in Calabria e poi a Napoli, nato a Pieve di Cadore ma subito portato dai genitori qua e là dove c' era uno straccio di lavoro fino a insediarsi a Torino, Luigi si scontrò subito, alle elementari, col pregiudizio. La mamma gli aveva arrangiato qualcosa che paresse un grembiule. Mancava il fiocco, però. E la maestra, spazientita, un giorno sbuffò: «Montanaro!». Lui, offeso, afferrò il calamaio e glielo gettò addosso: «Feci male, sia chiaro. Quel gesto, però, fu in qualche modo l'inizio di un percorso. Quello di chi non accetta le ingiustizie».

È un viaggio in Italia, il film «Così in terra». Nell'Italia inquieta. Ferita. Periferica. Disoccupata. Miserabile. Brutta. Inquinata. Violenta. Quella che affoga nei problemi. Ma che si scuote appena ricordi uomini come Don Peppino Diana che a Casal di Principe scriveva «se la camorra ha assassinato il nostro Paese, noi lo si deve far risorgere. Bisogna risalire sui tetti, a riavvicinare la parola di vita» e perciò fu assassinato. Un viaggio tutto di corsa. Da un appuntamento all' altro. Sempre attaccato al telefonino («Siamo in ritardo! Siamo in ritardo!») mentre l' auto della scorta che gli hanno imposto da 29 anni e in particolare da quando Totò Riina fece sapere che lo voleva morto («Ciotti, Ciotti putissimu pure ammazzallo») schizza via da una parte all' altra della penisola. L'incontro coi giovani sull' usura nel Lazio («Siamo in ritardo! Siamo in ritardo!»). La preghiera in ricordo di una vittima della nuova mafia pugliese («Siamo in ritardo! Siamo in ritardo!»). Il dibattito nella scuola lombarda sulla corruzione («Siamo in ritardo! Siamo in ritardo!»). Una vita a perdifiato.
Eccolo arrancare sui monti calabresi col vescovo di Locri Francesco Oliva fino a una radura dove Maria Teresa racconta durante la messa di essere la vedova di «un meccanico ucciso a Locri circa 20 anni fa» e di essere «rimasta sola con tre bambini piccoli» e di non aver ancora avuto giustizia. Eccolo a un raduno di preti nel Casertano dove un sacerdote racconta di un parroco che, nonostante fosse stato messo in guardia, ha accettato i soldi di un camorrista per restaurare il tabernacolo e così adesso «Gesù sta in una custodia di camorra». Eccolo dalle parti di Trapani che incoraggia i ragazzi annunciando entusiasta la nascita d' una cooperativa di giovani per usare terreni confiscati a Matteo Messina Denaro e la scelta di dare a questa cooperativa il nome di Rita Atria, che si rivoltò contro la mafia cui era legata la sua famiglia e si uccise a diciotto anni per la disperazione d' esser stata isolata.
È scomodo, Luigi Ciotti. Ustionante. Incontentabile. La «capacità di faticare e la santa prepotenza», per usare le parole di Fiamma Nirenstein, con cui in cinquant'anni ha raccolto intorno a sé centinaia di migliaia di persone prima col gruppo Abele e poi con la rete associativa di Libera, non piacciono a tutti. Lo sa. Ha pestato i piedi a tanti. E sa pure che il rigore deve valere per tutti. Basti sentire una sfuriata nel bel mezzo di un' assemblea: «Noi chiediamo la tolleranza zero agli altri. Ma dobbiamo chiedere la tolleranza zero anche all'interno nostro. Perché nei nostri mondi e nella nostra realtà ci sono anche furbi. Che cosa fai? "Antimafia! Antimafia!". Cosa fai? "Parlo sempre di legalità! Ho fatto qui, ho fatto là, vado su, vado giù...". Nooo, bisogna esser sobri. Guardare alla sostanza dei problemi. Tutti a promuover convegni, convegni, convegni...». La guerra vera alla mafia, è certo, la fanno i testimoni ai quali dà voce. Come Vincenzo Agostino, che dal giorno lontano in cui ammazzarono suo figlio Nino e la moglie incinta non si è più tagliato la barba e i capelli e come una specie di tragico mago Merlino tuona in chiesa: «Io nella città di Palermo non scenderò mai più e non mi taglierò più barba e capelli se non avrò verità e giustizia».
Davanti ai ragazzi, li prende di petto. Chiamandoli per nome: «Nel primo anniversario della strage di Capaci in cui era morto il giudice Falcone con sua moglie, ero a Palermo. Vicino a me c'era una signora tutta vestita di nero che piangeva. In modo ininterrotto. Capisci, cara Matilde, la vedevo piangere, piangere, piangere Non riusciva a fermare il suo pianto disperato. Non sapevo cosa fare. Piangeva. A un certo punto mi prese la mano. Mi scosse. Mi guardò in faccia. Non dimenticherò mai la domanda che mi fece: "Perché non dicono mai il nome di mio figlio?". Capii. Certo, era giusto ricordare Falcone, la moglie e "i ragazzi della scorta". Ma il primo diritto di quei ragazzi era d' essere chiamati per nome. Quella mamma voleva sentire il nome di suo figlio». Chi non lo sopporta lo vede solo come una specie di Savonarola bravissimo, con la sua retorica torrenziale, a sfruttare le emozioni. Altri restano folgorati da quella capacità magnetica di cogliere un punto per tirarsi dietro chi ancora vuole credere in qualcosa. Vasco non ha dubbi: «È un uomo di grande umanità, profondità, semplicità. Col quale mi sono subito sentito a casa». Gli piace, dice, «la sua predilezione per la diversità. Gli strambi. I freaks. I dimenticati. I giudicati». E poi «la sua cura della terra in quanto tale e non come semplice prologo del cielo». Perché vedere il film? Risponde: «Perché fa pensare».
5 giugno 2018, Gian Antonio Stella, Corriere della Sera

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