sabato, giugno 03, 2017

IL LIBRO. Da Portella a via D’Amelio, viaggio nei “Giorni di mafia”

ENRICO BELLAVIA
Piero Melati ripercorre nel suo libro il calendario nero della Sicilia, segnato da delitti e da personaggi oscuri. Raccontando le storture della retorica e “i professionisti del garantismo”
Sarà forse perché continuiamo a crederci il “sale della terra” ma la storia recente d’Italia sembra irrimediabilmente annodata a quella della Sicilia. È un viluppo perverso come l’abbraccio della vittima al proprio carnefice. Genera intrighi. E come in tutti gli imbrogli vai poi a distinguere davvero chi è causa del male e chi ne patisce gli effetti. Dove sta il torto e la ragione: se a Roma o a Palermo. Se a Torino o a Catania. Della Sicilia come luogo estremo condannato al male e al lutto, alla dannazione di una memoria intermittente, che non sparisce ma si appanna, che non oblia ma genera maschere di verità per renderci meno oneroso il passato, che guadagna nella finzione e nell’inganno della metamorfosi qualche passo lungo la linea oscura, spacciandolo per futuro, racconta Piero Melati nel suo “Giorni di mafia, dal 1950 a oggi”, editore Laterza. Un breviario per giorni scomodi, una data e una preghiera laica all’altare dei fatti.

“Quando, chi, come”, annuncia il sottotitolo del libro.
Ma con precisione chirurgica, dosando la parola come bene prezioso, Melati incide la carne viva della realtà offrendoci anche quel “perché” che il pudore di un cronista vecchio stampo non si sente di dichiarare in premessa ma al lettore risulta promessa mantenuta.
Ne viene fuori la storia così com’è, riferita nell’essenza del suo svolgimento, collocata nel contesto e illuminata dalla lettura di uno sguardo d’esperienza ma con il necessario distacco di chi osserva il mosaico e non le tessere.
Al mesto incedere delle ricorrenze, degli anniversari per celebrare il ricordo dei morti ammazzati, Melati più che opporre, affianca una cronologia di accadimenti non meno rilevanti ma lasciati in soffitta dalla narrazione corrente. E offre una galleria di personaggi neri sbiancati solo dalla polvere del tempo - l’avvocatissimo Vito Guarrasi, il ministro Giovanni Gioia fino ai Vito Ciancimino, ai Salvo Lima ai Giulio Andreotti - come di padri nobili la cui luce orienta negli angoli bui.
Si parte dalla morte di Salvatore Giuliano e dalla madre di tutte le stragi, quella di Portella che consegnò la terra dei siciliani alla maledizione dell’eterno compromesso per placare la fierezza di un popolo che l’educazione politica aveva reso meno oppresso degli oppressi e più consapevole degli istruiti. Si parte dal separatismo e dai sindacalisti uccisi. Si passa per il milazzismo e il sacco di Palermo con l’idea dichiarata che il mimetismo e lo scempio sono solo la premessa della contemporaneità.
Si arriva al tempo presente, ai compromessi dell’oggi, siglati e sigillati anche quelli con il sangue rappreso dei morti. Storie di viltà e di compiacenza quando non di connivenza e convenienza. Che si prova a far passare per la stretta porta di un’aula di tribunale o si preferisce annacquare nella trasfigurazione di fiction che dicono senza spiegare, che pagano il tributo all’impegno con il soldo facile dell’arte che non costa, del genio che non spiazza, dell’impronta labile sulla sabbia slavata.
Ci si spinge fino a Mafia capitale, la mega inchiesta sul patto criminale romano per dire che lì «la posta in gioco non è un processo, ma il futuro. Come, in quali circostanze, a chi potrà essere applicato il reato di 416 bis? Che cosa è mafia? E cosa non lo è?». Libro appassionante per il dosaggio di cronaca e letteratura che si disvela qui per quel che dovrebbe essere: la chiave d’accesso all’interpretazione. C’è Tomasi di Lampedusa e c’è Sciascia ma ci sono Michele Pantaleone, Carlo Levi, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Giuliana Saladino. Ma anche Truman Capote, Enzo Sellerio, Francesco Rosi. E Francis Ford Coppola: «La mafia è una incredibile metafora dell’America. Sono tutti e due fenomeni capitalistici spinti dal profitto».
Come nella vita dell’autore si mischiano passioni e conoscenze e le immagini hanno un peso, se ce l’hanno, anche in questo correre in groppa alle date.
Per raccontare, ad esempio, la vera storia di Raimondo Lanza come del “mostro” di Marsala. E denunciare le storture della retorica dell’enfasi: «Antimafia come lasciapassare, protagonismi, eccessiva credulità verso le procure, incapacità di misurarsi con validi argomenti con un fenomeno parallelo allo sciasciano professionismo dell’antimafia, i ”professionisti del garantismo”. Nasce anche una sorta di ”comandamento del dolore”: il rispetto per il sacrificio delle vittime viene a volte confuso in assegnazione di un automatico ruolo di leadership ai parenti».
Ecco: “Giorni di mafia” sono i giorni nostri, di chi c’era e di chi li ha avuti raccontati, riscattando il calendario dall’idea rassegnata che il domani sia solo un oggi posticipato e ieri il passato.
Un libro che paga il tributo ai Besozzi e ai Nozza come ai Bocca, artigiani della scrittura, che il mestiere di giornalisti ha portato all’incrocio con la grande storia.
E a Mario Francese ucciso dalla mafia e dalla “cecità faziosa”.
Perché, come ricorda Melati, a questo serve raccontarla. Perché come scrisse Bufalino in calce all’antologia “Cento Sicilie”, citata nel libro, «oggi, dopo mille stragi, dopo Falcone e Borsellino, ogni spazio parrebbe chiudersi, non dico all’idillio, ma alla fiducia più esangue. E tuttavia... finché in una biblioteca mani febbrili sfoglieranno un libro per impararvi a credere in una Sicilia, in un’Italia, in un mondo più umani, varrà la pena di combattere ancora, di sperare ancora. Rinunziando una volta per tutte a issare sul punto più alto della barricata uno straccio di bandiera bianca».

La Repubblica, 3 giugno 2017

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