mercoledì, giugno 07, 2017

“Così io e la squadra di Ultimo giurammo di catturare la Belva, ora non gli regalino la libertà”

La squadra di carabinieri guidata dal capitano
Ultimo durante un incontro nel 2010 al Palauditore di Palermo.
Uno di loro mostra la foto di Totò Riina
La lotta alla mafia. Il personaggio. Parla Roberto Longu, nome di battaglia Omar, il maresciallo che per sette mesi diede la caccia al Capo dei capi
PIERO COLAPRICO
MILANO - Roberto Longu ha 54 anni, portati atleticamente, e fa il security manager. Nel 1993 il suo nome di battaglia era Omar, e il suo mestiere il maresciallo dell’Arma. Era la mattina del 15 gennaio del 1993 quando a Palermo lui e Vikingo attaccano l’autista di un’utilitaria, Salvatore Biondino, mentre il capitano Ultimo e Arciere, alla fine di un’indagine durata sette mesi, mettono spalle a terra, sull’asfalto della rotonda dell’Agip, il “capo dei capi”, Salvatore Riina, detto Totò: era l’”inafferrabile di Cosa Nostra”, latitante da 24 anni. E adesso, che la Cassazione spiega che il boss dei corleonesi può finire di scontare la pena a casa, che cosa pensa un cacciatore di latitanti? «Una cacciatore di latitanti non odia nessuno, fa il suo lavoro contro l’avversario, chiunque sia».
Però…

«Però al di là di Totò Riina e di chiunque, esiste, o dovrebbe esistere, la certezza della pena. Se una persona è stata condannata a dieci anni, sconta dieci anni. Se ha più ergastoli, sconta l’ergastolo, anche se si hanno 85 anni e si è malati. Nelle condizioni più umane possibili, ma ergastolo è».
Tra di voi della squadra non la pensate tutti allo stesso modo, qualcuno tra voi sostiene che l’ideale sarebbe rilasciarlo e controllarlo sino all’ultimo respiro… 
«Dal punto di vista operativo ha ragione questo collega, sarebbe giusto anche per stabilire se Riina sia ancora il capo dei capi oppure no, e lo si capirebbe in termini oggettivi. Dà ancora ordini e qualcuno li esegue? E chi? Ma se parliamo di giustizia, e non di tattiche, mi sarei aspettato dalla Cassazione un altro discorso. Magari un “costruiamo un ospedale bellissimo per gli ergastolani anziani e malati, ma le nostre sentenze, emesse in nome del popolo italiano e passate in giudicato, vanno rispettate. Sino in fondo”».
L’unica risposta che Repubblica ha ricevuto da Ultimo è «il perfetto silenzio della neve»: secondo lei, che vuol dire?
«Che non ci sono più parole, questo è un mondo dove i valori, compreso il rispetto della legalità, non raramente si congelano».
Da giornalista, ho la certezza, basata su fonti affidabili e risalenti a quell’epoca, che la cattura di Riina sia stata un’operazione pulita, ma poi è stata sporcata da più mani. Come mai, secondo lei?
«Noi eravamo un gruppo d’eccellenza, non di schiavi al comando di un capo, non esiste eccellenza tra gli schiavi, ognuno diceva e dice ancora oggi la sua. In trasparenza. E ho sempre pensato che l’arrivo improvviso del pentito Balduccio Di Maggio, quando noi eravamo già vicinissimi alla cattura, ci avrebbe in fondo danneggiato…».
Può rispondere a una vecchia curiosità? Onestamente, da chi è stata presa la decisione di provare ad acchiappare Riina?
«Siamo stati noi e basta, ma se lo scrive la prenderanno per pazzo. C’era stato l’attentato a Giovanni Falcone e ci siamo detti: “E adesso noi che possiamo fare?”. “Andiamo a catturare Riina” era l’unica risposta, sulla bara dei morti. Ci siamo fatti autorizzare e siamo scesi, ma come Crimor di Milano avevamo già studiato a memoria molte inchieste e carte giudiziarie. Ma, ripeto, se scrive l’operazione nasce dal capitano Sergio De Caprio e da quattro straccioni di carabinieri di strada non vorranno crederci. Ma è solo per politica, per l’ambizione di alcuni magistrati che nelle loro carriere hanno combinato di concreto quasi zero contro la mafia. Falcone stesso non era amato, quando andava a Milano parlava solo con Ilda Boccassini, a Palermo non ricordiamo nemmeno quanti nemici aveva tra i suoi colleghi».
1992, voi del Crimor vi mettete dietro i macellai, in tutti i sensi, chiamati Ganci… 
«Sì, eravamo così arrivati nella zona delle villette dove Riina abitava, quando compare il pentito Di Maggio e racconta che andava a prelevare il boss alla rotonda dell’Agip. Ma Riina ci arrivava per conto suo, mica era scemo. Questo Di Maggio dormiva nelle camerate dell’Arma, finché qualcuno di noi si scoccia: “Ma che cazzo fa questo qui tutto il giorno? Dorme sempre, noi sputiamo sangue da mesi, almeno facciamogli vedere i filmati che abbiamo girato”. E così lui ha riconosciuto, in motorino, i figli di Riina, e la mattina dopo alle 7 piazziamo il pentito sul furgone dei controlli. Se vede Riina ce lo deve indicare».
Ma lui non vede arrivare Riina… 
«No, alle 8 meno 5 arriva una Citroen, a bordo c’è Biondino, coinvolto nelle stragi Falcone e Borsellino. Di Maggio lo riconosce, il cancello si apre, si chiude, poco dopo la Citroen ricompare, stavolta con due a bordo. Ci siamo. “È uscito Sbirulino”, dice la radio e noi decidiamo di attaccare alla rotonda. Quando con Arciere prendo Biondino, e lo giriamo, m’è scoppiato cuore. Non assomigliava alle foto segnaletiche. La strada sino alla caserma Carini m’è sembrata lunga 3mila chilometri, non sapevo che anche ammanettato nella macchina con Vikingo e il capitano il prigioniero aveva ammesso, “Sono Totò Riina”».
La vostra si chiamava “operazione Belva” e la belva era lui, giusto?
«Esatto, era lui. Ma era ed è un essere umano, esattamente come la mafia è un fenomeno umano, e lo diceva Falcone. Perciò, non mi stupisce che un avvocato faccia il suo mestiere spiegando di guardare all’uomo Riina e non ai suoi reati, ma lo Stato deve guardare ai reati, al ravvedimento, alla collaborazione di Riina. Altrimenti di motivi per regalare la libertà alle persone che non se la sono guadagnata se possono trovare mille».
La Repubblica, 7 giugno 2017

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