di IRENE PATERNOSTRO
27 Gennaio 2015 – Giornata della
Memoria, e settantesimo anniversario dell’apertura dei cancelli del campo di
Auschwitz.
Pensieri
e parole ci trasportano in un universo distopico: un mondo non-mondo corrotto e
infettato, privato di anima e coscienza. Per settant’anni – in realtà molto
meno, poiché, per così tanto tempo, qualcuno è stato ancora capace di negare
l’accaduto – uomini e donne di tutto il mondo hanno riportato a galla la
tragedia più grande della storia umana, quell’unica tragedia in grado di inviare
un po’ tutte le menti sulla strada di una profonda riflessione, in grado di
gettare una società intera nel mare oscuro dello sbigottimento,
dell’incredulità.
Com’è
possibile che tutto questo sia successo? Dare una risposta non è probabilmente
nelle nostre facoltà, non ne siamo capaci. O forse, semplicemente, una risposta
non esiste, né può esistere.
La
giornata delle classi partecipanti al Treno
della Memoria si apre così: ricordo, memoria, impegno; i ragazzi si
adoperano per non disperdere anche la più piccola immagine della loro
esperienza, perché questa possa passare a coloro che parteciperanno quest’anno
arricchita e impreziosita.
Ci
viene raccontato dalla preside che stamattina, alla radio, un’insegnante di
storia e filosofia di un liceo di Roma, sgomenta, ha lamentato come uno dei
suoi allievi abbia definito la Giornata della Memoria “festa della Shoah”. Se questo accade, è difficile staccarci dalla
forte consapevolezza che, per noi – magari non tutti –, questo giorno sia
diventato una mera occasione per perdere
tempo in chiacchiere, impiegare le nostre ore a discutere di nulla anziché
fare lezione. Definire questa giornata festa
non dev’essere concepibile: nessuno è stato in grado di far festa, neppure dopo
l’apertura dei campi. L’orrore, la violenza, il dolore sono stati così forti da
impedire quasi, addirittura, che si gioisse davvero. Noi stessi non riusciamo
probabilmente ancora a gioire. I sopravvissuti sono stati così pochi, troppo pochi per gioire davvero.
Allora,
nella stanza si ripete che la memoria è
l’unico antidoto: è l’unico antidoto contro l’ignoranza, contro
l’intolleranza, contro la privazione di valori reali, contro la corruzione
degli animi, contro il fanatismo di ogni tipo, contro l’annientamento del
diritto alla vita, contro l’assenza di pietà e coscienza.
Atti
d’intolleranza e repressione vengono fuori ogni giorno, e non vengono fuori dal
nulla: sono infatti frutto di grandi macchinazioni, di premeditazione, di
ricerca – come è successo nel caso della famigerata soluzione finale: quanti registri impiegati, quante carte, quanti
piccoli e miseri appunti, quanti patrimoni, quanti lavori, quanta geniale e
spietata freddezza.
Per
questa ragione ci serve la memoria. Aggrapparsi alla memoria significa
aggrapparsi a qualcosa di più grande, significa costruire per sé e per gli
altri un futuro che non debba mai più sperimentare una sistematica crudeltà del
genere. Colui che non ricorda il passato
è destinato a ripeterlo: questa stessa frase è stata tradotta in moltissime
lingue, condivisa, radicata. Poi, come in tutte le cose, siamo andati
vergognosamente avanti.
I
testimoni diretti raccontano di una distanza fra sé e le generazioni
contemporanee, che non capiscono, non s’immedesimano, forse non ascoltano
neppure. Sono troppo lontani, troppo non
coinvolti: non si può eliminare il pensiero che miliardi di persone siano
semplicemente rimasti a guardare.
Anno
dopo anno, piano, inesorabilmente, i giovani dimenticano, ritengono superflua
la storia, superflui i racconti, superflue le vivide immagini di un terrore
insopportabile. Nonostante ciò, (r)esiste ancora chi è in grado di strapparsi
le carni pur di aprire se stesso al ricordo. C’è ancora chi vuole ascoltare,
chi desidera annotare, scrivere, riversare tutta la transitiva angoscia che attanaglia
il suo stomaco alla sola idea che questo sia accaduto davvero, che non sia solo
una favola degli americani, che non sia solo propaganda, falsa e ingannevole.
Quelle
persone lottano contro la noia e l’inconsistenza del loro presente, mettono il
loro impegno al servizio della memoria – memoria,
parola principale della giornata, dell’intero progetto.
Ascoltiamo
le parole, osserviamo con viva attenzione le immagini, catturati dalle note
della musica.
Ogni
testimonianza dipinge per noi un quadro netto: la morte aspetta, schiacciata
contro la trama di ferro dei reticolati, che qualcuno arrivi a farsi portar
via.
Questa
la realtà dei campi: si muore di fatica, si muore di freddo, si muore di
disperazione, di stenti, si muore.
Anche prima dei campi di sterminio.
Glaciali
numeri sostituiscono nomi e cognomi. Pallide repliche di esseri umani sostituiscono la persona che una volta c’era. Divise
tutte uguali sostituiscono i colori di personalità volenterose e forti. E noi
ascoltiamo.
Arrivano
i soldati, il 27 Gennaio ’45. I cancelli si aprono su agognati prati fino a un
attimo prima ancora enormemente lontani.
Libertà, fino a quel
momento, era stato un significante di sette
lettere del tutto svuotato del suo contenuto.
I
prigionieri si trovano riversati sulla strada.
“Non morite proprio adesso: la guerra sta per
finire”.
All’apertura
dei campi, Liliana Segre, di quattordici anni, fu costretta a lasciare un’amica
con cui aveva condiviso tutto l’anno e mezzo di prigionia, perché, malata di
cuore, non aveva la forza di alzarsi ed uscire. L’orrore della Shoah è un
orrore che strappa ogni forza e ogni volontà. L’unica forza che ha tenuto in
vita quelle persone è stato il forte desiderio di vivere, di correre, di
riprendere in mano la propria esistenza, fino ad allora controllata dai nazisti
di Hitler.
Il
vigore fisico mancava al punto da rendere impensabile la sola idea di
soccorrere un amico o un parente più debole.
Ciò
che l’Olocausto ha annientato più di tutto il resto, più del coraggio, del
nome, dell’identità, dell’armonia, della sicurezza, della vita stessa, è l’umanità: un’umanità stravolta e
calpestata nelle vittime, sopita, addormentata e terrorizzata negli spettatori,
abbrutita, trasfigurata, deposta, annullata nei carnefici.
L’umanità
altro non è se non l’unica virtù che ci rende ciò che siamo, che ci realizza
nella nostra essenza primaria: quella di individui pensanti e senzienti, dalle
ferventi convinzioni e dalle coscienze impregnate di empatia.
Tutte
quelle piccole anime continuano a pulsare nel cuore della gente del Duemila,
che ospita tra le sue fila disillusi e apatici, ma anche sognatori, pensatori,
rivoluzionari, e i cuori di questi ultimi sono – e devono necessariamente essere – forti e veloci abbastanza da contenere i
battiti dei loro precursori.
Liliana
Segre ci consegna di persona quella che è la nostra libertà, e che non abbiamo
quasi mai la facoltà di realizzare appieno nella sua complessità: vedere il
male, essere continuamente esposti ad esso, maltrattati, corrotti da esso, ma non farlo, in favore dell’umanità, concetto che ritorna ancora e ancora, vivo e vivido nei
nostri occhi. Liliana avrebbe potuto sparare, ma non lo ha fatto, perché non
poteva permettere che quell’immane violenza ne generasse altra. E’ da quel
momento in poi, oltre l’apertura dei campi, oltre le grida solidali dei civili,
che Liliana è stata libera.
Anche
la nostra libertà consiste in questa scelta, e gli uomini falliscono
continuamente, schierandosi contro i propri simili e contro se stessi.
Ogni
atto di violenza, se incatenato ad altri, può portare a una guerra. Ogni
guerra, se perpetuata in un terrore sufficiente, può condurre al fanatismo,
alla spasmodica ricerca di una guida nel buio. Ogni intolleranza può condurci al precipizio di un sistematico,
raccapricciante sterminio.
L’estromissione
dalla società, l’isolamento nei ghetti, il lavoro e la morte brutale nei campi
fanno parte di noi – noi come razza umana, e noi come ogni singolo individuo abitante la Terra: tutto ciò può
ripetersi, può ripresentarsi, può accadere ancora, chissà dove, chissà quante
volte.
Infinite
persone muoiono ogni giorno sulle nostre strade: muoiono sole e disperate e
nessuno se ne cura, o muoiono uccise da chi non sopporta che credano in cose
diverse, che si esprimano in modo diverso, che la loro storia sia diversa. La
nostra memoria acquista da questo le sue solide fondamenta.
Viviamo
ancora in un’epoca colma di martiri e persecutori.
Il
7 Gennaio, solo venti giorni fa, l’attentato a Charlie Hebdo ha scosso la Francia e il mondo intero: estremisti
religiosi contro la libertà di stampa.
Il
9 Agosto dell’anno scorso, cinque mesi e mezzo fa, Michael Brown è stato
ucciso, a Ferguson, da un poliziotto che lo riteneva, seppure fosse disarmato,
una potenziale minaccia: il Grand
Jury non ha ritenuto necessario un processo, perché un membro delle forze
dell’ordine non può essere colpevole.
Le
ingiustizie esistono ancora, la minimizzazione dilania la nostra coscienza
continuamente.
Tutto
appare troppo relativo: io non sono ebreo, non sono rom, non sono
omosessuale, non faccio parte di una minoranza etnica, non sono musulmano, non
sono immigrato, non sono disoccupato, non soffro di disturbi mentali, non sono
un senzatetto, sono una persona normale. Quindi ho il diritto di dimenticare.
Invece no: nessuno di noi, nessuno,
ha il diritto di dimenticare. Nessuno di noi non è coinvolto. Nessuno di noi
può permettersi di chiudere gli occhi alle ferite dell’anima, di schermarsi dal
vento che ancora trasporta la polvere, trasporta i respiri e le parole e le
mute speranze di chi non ce l’ha fatta.
Ed
è con questo bagaglio che abbiamo intenzione di partire per la Polonia.
Irene Paternostro
Nessun commento:
Posta un commento