lunedì, ottobre 06, 2014

Trattativa Stato-mafia: storia di Russo che si ribellò al patto



Giuseppe Russo
di Antonio Roccuzzo
La cronaca (e la storia) del dopoguerra in Italia è disseminata di “misteri”, protocolli riservati, patti segreti, strette di mano occulte. Ed è disseminata di  “indicibili intrecci” (copyright di Loris D’Ambrosio) in particolare sul fronte della lotta dello Stato alla mafia.
Noi parliamo ora, e da un paio di anni, della Trattativa Stato-mafia legata alla stagione delle stragi del 1992. Ma ci sono storie ed episodi che raccontano già nei decenni precedenti l’ombra della medesima continuità della pratica di “scambi” indicibili tra apparati e capimafia. In nome della pace sociale e dello status quo, pezzi degli apparati dello Statohanno da sempre praticato la politica del baratto con i boss. E alcuni protagonisti di quelle pericolose relazioni ritornano in scena nei decenni e forse non sono mai usciti.

Esempio: prendiamo l’omicidio del colonnello Giuseppe Russo, alto ufficiale e investigatore di punta dei carabinieri, ucciso nella piazza di Ficuzza (vicino a Corleone) il 20 agosto 1977. Russo era uno tosto: indagava sul “mistero” della morte di Enrico Mattei e sulla stagione delle stragi mafiose a Palermo e provincia: anche allora, per dirimere i conflitti interni all’organizzazione, i mafiosi corleonesi e i palermitani si piazzavano autobombe (Giuliette Alfa Romeo per l’esattezza) e così risolvevano i loro conflitti.
Russo era stato collaboratore del generaleCarlo Alberto Dalla Chiesa, negli anni 50 capitano a Corleone. Russo e Dalla Chiesa avevano iniziato a interrompere lo “scambio” indicibile per il quale, a fronte di notizie o di qualche arresto per “fare bella figura”, le forze dell’ordine si accontentavano di avere “pace sociale” sui territori. Niente omicidi, niente indagini: questa la sintesi del patto. Finché durava, non c’erano delitti, si arrestavano ladri e piccoli furfantelli, ma senza molestare traffici e indagare sulle relazioni tra politica, imprese e mafia.
Per decenni, la scena era stata questa: i vescovi che negano l’esistenza della mafia, i procuratori della Repubblica e i giudici di Corte d’Assise che alla fine assolvevano i mafiosi per insufficienza di prove (che nessuno cercava). Gli unici che facevano casino erano i capipopolo che occupavano la terra e si battevano per i diritti dei contadini e per questo molti di loro erano gli unici ad essere uccisi (vedi la strage di Portella e poi i delitti dei sindacalisti Salvatore Carnevale e Placido Rizzotto). Questa è stata la storia dei 25 anni che in Sicilia seguirono alla seconda guerra mondiale.
Se un carabiniere si metteva in testa di “rompere” quel tacito patto di non belligeranza, rischiava. Russo lo fece, non si accontentò solo di fare qualche arresto: indagava sul caso Mattei, ma si era messo in testa  anche di scoprire gli affari economici dei corleonesi e voleva capire le nuove relazioni e il nuovo patto tra i corleonesi e la nuova classe politica e le imprese.
Quello del colonnello Russo fu forse il primo delitto di alta mafia. E tuttavia, grazie alle lacunose e frettolosissime indagini dei suoi colleghi, per quel delitto furono imputati e condannati un gruppo di pastori e qualche balordo ai confini dei sistema mafioso. Le motivazioni del delitto? Risibili, piccole storie locali.
Vent’anni dopo quel delitto, nel 1997, gli imputati saranno prosciolti e l’intera cupola di Cosa nostra(Riina, Provenzano, Bagarella e così via), saranno indagati e processati.  E saranno accertati i depistaggi degli apparati di intelligence per coprire le ragioni di quel delitto. Perché il colonnello Russo aveva infranto la “prassi” antica e consolidata della trattativa o dei patti scellerati tra Stato e mafia. 

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