martedì, dicembre 10, 2019

L’anniversario. Viale Lazio, la strage di mafia che segnò il sacco di Palermo

Un'immagine della strage di viale Lazio

di Salvo Palazzolo
Cinquant’anni dopo, i destini incrociati di tre uomini: uno dei sopravvissuti, figlio del costruttore Moncada, vive ora nella casa dell’agguato, ma è chiuso nel suo silenzio. I figli di due vittime chiedono verità sull’eccidio
Dentro a un vicolo, al numero 108 di viale Lazio, continuano a rincorrersi i destini di tre uomini. Che non si sono mai incontrati. Ma da cinquant’anni, ormai, le loro storie ruotano attorno a quel budello, da quando la sera del 10 dicembre 1969 un commando di killer mafiosi travestiti da poliziotti fece irruzione negli uffici del costruttore Girolamo Moncada, per uccidere il boss Michele Cavataio, padrino in ascesa che dava fastidio a molti in Cosa nostra.

Angelo, il figlio diciannovenne del costruttore, rimase vivo per miracolo: si finse morto, sotto una scrivania, mentre Bernardo Provenzano finiva Cavataio. I sicari uccisero anche l’imprenditore Francesco Tumminello: quella sera, il capitano Giuseppe Russo prese sotto braccio suo figlio Giorgio e gli chiese come era stato possibile che suo padre, capocantiere dei Moncada, fosse diventato nel giro di pochi mesi un influente costruttore. Il giovane, che aveva 24 anni, rimase in silenzio.
Piangeva, invece, a dirotto il piccolo Ferdinando Domè, 10 anni, il figlio di Giovanni, suo padre era un onesto operaio dei Moncada, quella sera era arrivato di corsa negli uffici della ditta per chiedere un anticipo sugli arretrati. Ma ebbe la sfortuna di trovarsi davanti ai killer. In una manciata di minuti, poco dopo le 19, rimasero per terra cinque persone: non ebbe scampo anche il ragioniere dei Moncada, Salvatore Bevilacqua; e uno dei killer, Calogero Bagarella, ucciso da Cavataio. L’altro figlio di Moncada, Filippo, riuscì invece a nascondersi in uno sgabuzzino.
Quella strage segnò Palermo, in un drammatico prima e dopo. Mentre il cemento della speculazione continuava ad ingoiare la città e i mafiosi frequentavano segreterie politiche, aziende e salotti. Nel 2009, le dichiarazioni di uno dei killer di viale Lazio, Gaetano Grado, al pubblico ministero Michele Prestipino, hanno portato a due condanne all’ergastolo, per Bernardo Provenzano e Totò Riina: prima della strage erano solo dei giovani sicari al servizio di una maggioranza che voleva sbarazzarsi di un ingombrante Cavataio, boss dell’Acquasanta; il giorno dopo, iniziarono la loro scalata.
Cinquant’anni dopo, questa è una storia in parte ancora da scrivere. Perché il tesoro di Cavataio, uno dei mafiosi più influenti di Palermo, sembra essere scomparso nel nulla da quel giorno di dicembre. E, intanto, i destini di tre uomini continuano ancora a intrecciarsi nel vicolo al numero civico 108 di viale Lazio.
Angelo Moncada è tornato a vivere proprio lì, l’ufficio della strage è oggi un appartamento, il soggiorno è dove i killer entrarono in azione. Qualche tempo fa, il figlio dell’imprenditore ha pubblicato su Facebook la foto del cadavere di Cavataio e un commento: «Tra le due scrivanie» . Lui era lì. Ma non ha mai aggiunto altro, si è chiuso in un silenzio profondo, né si è costituito parte civile nel processo.
Si era invece costituito in aula Giorgio Tumminello. Quella mattina, prima che iniziasse la prima udienza, ci raccontò della sua fuga da Palermo, con la madre e i quattro fratelli: «Dopo la strage eravamo terrorizzati» . Ci raccontò soprattutto perché era tornato: «Voglio trovare la verità su quel fiume di soldi della speculazione edilizia che travolse mio padre e invece ha arricchito tante persone. Lui era un prestanome, aveva delle proprietà anche a New York, e dopo la sua morte tutto è sparito» . Domanda pesante quella che Tumminello affidò in un’intervista a Repubblica: «Voglio sapere chi si è impossessato di quelle ricchezze, anche se diranno che sono un pazzo, o un morto che cammina». Due mesi dopo, ritirò la costituzione di parte civile e scomparve da Palermo.
Al processo, rimase solo Ferdinando Domè con i suoi fratelli. Anche lui era andato via dalla Sicilia dopo la strage. «Assalito dalla vergogna – racconta – i giornali dicevano che pure mio padre era un mafioso. E per trentacinque anni ho vissuto a Torino, ho lavorato in un’azienda che poi è fallita». Un giorno, Ferdinando è tornato nel vicolo. «Ero insieme ai ragazzi delle scuole che partecipano al progetto "Se vuoi", organizzato da alcuni poliziotti. Mi ritrovai a raccontare la storia della mia famiglia, all’inizio fu doloroso, poi poco a poco è stata una liberazione. E non ho più smesso di tornare nel vicolo» . Anche oggi Ferdinando e i suoi fratelli saranno in viale Lazio, alle 17.30, con studenti e associazioni. Per ricordare la strage di cinquant’anni fa. «Dobbiamo continuare a fare domande», dice.
Una volta, Ferdinando incontrò Angelo, nel vicolo. Lo fermò, gli chiese: «Ma perché a tutti quelli che erano per terra diedero il colpo di grazia e a te no?» . Moncada farfugliò qualcosa. «Sono stato fortunato» , sussurrò. E tornò nel vicolo.
La Repubblica Palermo, 10 dicembre 2019

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