mercoledì, giugno 12, 2019

Il dibattito sul dopo 23 maggio/2. Ben venga il “tavolo delle idee”, purché si eviti l’unanimismo

Umberto Santino
di Umberto Santino 
Accolgo volentieri la proposta di Maria Falcone di istituire un “tavolo delle idee” a cui partecipino le varie componenti dell’antimafia, civile, sociale, istituzionale, per un confronto che faccia il punto sullo “stato dei lavori” e ridefinisca una strategia sui vari aspetti della prevenzione e del contrasto alle mafie e della progettazione di alternative. In una società che, nonostante arresti, processi e condanne, sequestri e confische di beni, continua a produrre mafia o gruppi che si rifanno al metodo mafioso. È una partita che pare replicarsi all’infinito e la fine di cui parlava Falcone non sembra imminente.

Ho apprezzato il riferimento alle lotte contadine del secondo Dopoguerra, che sapevano coniugare antimafia e antifascismo in una mobilitazione di massa per una democrazia compiuta. È uno degli aspetti dei miei studi e delle mie ricerche a cui tengo di più, perché testimonia una continuità nella lotta alla mafia, con soggetti, modi e contesti diversi, che viene troppo spesso ignorata. Nei miei incontri anche qui in Sicilia, e soprattutto nel resto d’Italia e all’estero, lo stereotipo che circola di più è che, prima del 1992, tutti i siciliani eravamo mafiosi o complici dei mafiosi e dopo siamo diventati, tutti o quasi tutti, antimafiosi.
È vero: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano idee politiche molto diverse, ma combattevano fianco a fianco. Ma andrebbe ricordato che Borsellino faceva riferimento alle responsabilità politiche e in un’intervista, non casualmente archiviata, i riferimenti erano espliciti. L’intervista con due giornalisti francesi, Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo, è del 21 maggio 1992, due giorni prima del 23 maggio, e alcuni personaggi hanno nomi e cognomi: Vittorio Mangano, capo di Porta Nuova e “stalliere” ad Arcore, legato a Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia. Uomo “di destra”, Borsellino, ma che sapeva perfettamente cosa si muoveva da quelle parti e nei dintorni e certamente non vi si riconosceva.
Il problema non è la “purezza” di una presunta antimafia doc, il dispensare o negare patenti, rivendicare primogeniture, ma semplicemente distinguere tra i proclami e le pratiche quotidiane. E questa distinzione non è per partito preso ma si fonda su atti concreti.
Negli anni del maxiprocesso sembrava che tutte le istituzioni fossero schierate contro la mafia. Poi, proprio per il suo esito positivo, il pool di magistrati fu sciolto. Perché quel metodo di lavoro, per tanti, era più una minaccia che una rassicurazione. Se guardiamo a quello che sta succedendo sotto i nostri occhi, il decreto sbloccacantieri, azzerando i controlli su appalti e subappalti, favorisce o contrasta gli affari dei mafiosi? E, a proposito di antifascismo, le pose da ducetto di Salvini, le sue aperte simpatie per i camerati di CasaPound, alla cui casa editrice ha affidato la sua egologia, il consenso di cui gode, unito all’astensionismo, non sono la prova della fragilità della cultura democratica nel nostro Paese?
Non credo che la si rafforzi recitando il copione dell’unanimismo. È su questi terreni che si misurano le politiche e si definiscono le parti. E se i rappresentanti delle istituzioni sono presenze obbligate nelle cerimonie ufficiali, non dovrebbero essere invitati a un confronto non ingessato, più che a una parata d’occasione?
Alla luce di queste considerazioni, di elementare ragionevolezza, ben venga il tavolo delle idee, come sono benvenute le collaborazioni per realizzare un progetto unitario come quello del No Mafia Memorial. Ha ragione Vito Lo Monaco quando scrive che bisogna avviare una nuova fase dell’antimafia, ma il problema non è organizzare insieme i grandi eventi, ma superare la prassi dell’evento. L’antimafia ha bisogno di strutture permanenti, ed è questo che manca non solo nell’antimafia ma in tutto quello strano mondo che è la cultura a Palermo e in Sicilia.
La Repubblica Palermo, 12 giugno 2019

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