sabato, luglio 07, 2012

Trattativa Stato-mafia, Ingroia: “C’è un’Italia della vergogna e un’Italia della speranza”


Antonio Ingroia
Il procuratore aggiunto della Procura distrettuale antimafia di Palermo, a conclusione delle indagini preliminari, parla della trattativa Stato-mafia, di buona politica e grandi aspettative in un Paese che a parole vuole la verità, ma nei fatti troppo spesso persegue nella menzogna.
Colloquio con Antonio Ingroia 
di Rossella Guadagnini

“Sui principi di fondo di una democrazia, non posso essere neutrale. Ho delle opinioni cui far riferimento che non sono né ideologiche né politiche, ma costituzionali. E sono quei valori consacrati dalla Carta su cui ho solennemente giurato. In difesa di questi valori mi schiero e sempre mi schiererò”. Antonio Ingroia è procuratore aggiunto della Procura distrettuale antimafia di Palermo, nell’occhio del ciclone per via dei clamorosi sviluppi delle indagini sulla trattativa Stato-mafia, che vede i riflettori puntati su alcune delle più alte cariche della Repubblica. 

In questi giorni Ingroia è spesso in giro per l’Italia per presentare “Palermo”, il suo ultimo libro appena pubblicato da Melampo editore (pp.166 euro16), un atto d’amore e di fede nei confronti del capoluogo siciliano che, oltre a essere la sua città natale, è divenuto crocevia di una battaglia sulla legalità delle forze democratiche. Democrazia e giustizia, giustizia e politica, politica e democrazia: sono questi i lati del triangolo entro cui, per forza di cose, si muove il dibattito istituzionale e civile nel nostro Paese. Un Paese che tuttavia, come sottolinea lo stesso Ingroia “ha un rapporto difficile con la verità, che si può risolvere se tutti, ogni componente della società e le istituzioni, si muovono verso questo stesso obiettivo: l’accertamento della verità”.

Procuratore, porre la questione della trattativa Stato-mafia è come aver tentato di scoperchiare il vaso di Pandora. A che punto siamo? Quali fatti certi dell'inchiesta può indicarci? 
In questa sede non posso entrare nei dettagli. Comunque noi riteniamo che ci sia un quadro sufficientemente coerente e organico, tale da poter chiudere le indagini. E’ il momento in cui si dà la possibilità agli indagati di chiedere di essere interrogati, di chiedere che siano sentiti i testimoni a discarico o acquisiti dei documenti. A quel punto, tenuto conto di eventuali ulteriori elementi, assumeremo le decisioni finali sulla richiesta di rinvio a giudizio o meno per fare il processo. L’ipotesi su cui stiamo lavorando è quella di una pressione della mafia, che ha minacciato la prosecuzione della strategia di omicidi culminata con le stragi del ’92 per indurre lo Stato a trattare. Una pressione che poi avrebbe avuto come risultato un’effettiva trattativa. 

Lei sta scrollando l'albero con forza: che frutti ne cadranno? 
A tutt’oggi non sono in grado di fare previsioni. Credo tuttavia che un quadro probatorio abbia già una sua solidità. Ribadisco che l’augurio nostro è che se c’è ancora qualcuno – e sono assolutamente convinto che ci sia – che tace e che non ha ancora raccontato tutta la verità, i particolari che possano essere utili alla nostra ricostruzione, è il momento che venga fuori a raccontarli. Ora.

A suo avviso, questa vicenda è un banco di prova delle istituzioni e della stessa tenuta democratica? 
Direi che è un banco di prova della capacità non solo delle istituzioni, ma di tutto il nostro Paese, se esso vuole venire a capo della propria storia, anche riguardo agli aspetti meno nobili e più imbarazzanti. Ritengo che un Paese maturo possa e debba fare i conti con il proprio passato per riuscire a crescere e guardare in avanti.

Tutto sembra accadere adesso, a 20 anni di distanza dalle stragi di Capaci e via D'Amelio, in un periodo che per molti aspetti richiama il '92: crisi economica, politica e fors’anche un passaggio affannoso dalla Seconda a una Terza Repubblica.
Sì, è vero, ci sono molti punti di contatto della fase attuale con quella di allora, ma non mi sentirei di stabilire 

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