sabato, maggio 12, 2018

Dai negazionisti a Puglisi, la lunga marcia della Chiesa

I vescovi siciliani riuniti sotto il tempio della Concordia ad Agrigento

FABRIZIO LENTINI
L’analisi. Il mondo cattolico e i boss.C’è voluto un quarto di secolo per passare dall’urlo al ragionamento, dall’anatema all’argomentazione
C’è voluto un quarto di secolo per passare dall’urlo al ragionamento, dall’anatema all’argomentazione, dal verbum al logos. C’è voluto un quarto di secolo per dare contorni precisi al “peccato di mafia”, per incanalare la santa rabbia dentro le paratie dell’elaborazione teologica e dell’azione pastorale. Fino a ieri le parole più forti, le omelie più vigorose, le condanne più inequivocabili pronunciate dalla Chiesa contro i boss e i loro protettori erano state il frutto deperibile di slanci d’impeto, da scatti di umanissimo furore.
Fu l’esasperazione, il senso di impotenza dinanzi all’ennesimo delitto eccellente della mafia, l’uccisione del prefetto Dalla Chiesa con la moglie e un agente di scorta, a indurre il cardinale Pappalardo a scandire dal pulpito della basilica di San Domenico, il 4 settembre 1982, appena diciotto ore dopo l’agguato, l’invettiva contro lo Stato che discute mentre Palermo viene espugnata come Sagunto. Un’omelia funebre scritta di getto, in una notte, sentendo morire «la speranza dei palermitani onesti». E fu lo shock per lo struggente incontro con i genitori del “giudice ragazzino” Rosario Livatino, la mattina del 9 maggio 1993, a spingere papa Wojtyla a stravolgere la scaletta del discorso da pronunciare poche ore più tardi nella Valle dei templi. Un testo scritto e già distribuito ai giornalisti ma divenuto carta straccia di fronte alle immagini possenti rilanciate dai tg. Quelle che mostrarono un Giovanni Paolo II, la mano destra chiusa a pugno, tuonare contro la mafia, «civiltà della morte». E infine agitare verso l’alto l’indice ammonitore per gridare «ai responsabili» di convertirsi, perché «una volta verrà il giudizio di Dio».
Parole che suonarono definitive: un giro di boa, uno spartiacque, un punto di non ritorno. Mai più nella Chiesa ci sarebbe stato spazio per le minimizzazioni indispettite del cardinale Ruffini, per il devozionismo plateale dei mafiosi, per i silenzi pavidi delle gerarchie. Ma a capire che le cose erano cambiate, prima della Chiesa, fu Cosa nostra, che quattro mesi dopo l’anatema di Wojtyla uccise don Pino Puglisi, arrivato a Brancaccio con fama di “normalizzatore” e invece diventato il punto di riferimento di una bella fetta del quartiere che non accettava lo strapotere dei boss. Fino a scontare la freddezza del cardinale Pappalardo, pioniere della condanna della mafia dall’altare, ma sempre timoroso delle strumentalizzazioni politiche. «Non sono un vescovo antimafia», diceva di sé stesso.
«Non era un prete antimafia», disse di Puglisi celebrando il suo funerale.
Ma è proprio intorno alla figura di don Pino che ha preso forma, nei vent’anni successivi, la posizione della Chiesa siciliana su mafia e antimafia. Perché, da un lato, la causa di beatificazione del parroco di Brancaccio, promossa nel 1999 dal cardinale Salvatore De Giorgi e conclusa, dopo un laborioso iter, nel 2013, è oggi un punto di riferimento fondamentale, anche per chi nella Chiesa coltivasse ancora qualche dubbio sulla necessità di schierarsi. Puglisi, afferma la Congregazione per le cause dei santi, è un martire cristiano, perché i mafiosi lo hanno assassinato «in odium fidei».
Insomma, chi è affiliato a Cosa nostra, ancorché battezzato, è un nemico della fede, fa parte di una «struttura di peccato». Su questa linea la scomunica degli “uomini d’onore”, e dunque la loro esclusione dai sacramenti, più volte ribadita dalla Conferenza episcopale, anche se sulla carta già vigente dagli anni Cinquanta, dai tempi cioè del cardinale Ruffini. Dall’altro lato, l’indicazione del modello di padre Puglisi ha costituito fino a oggi, per la Chiesa siciliana, una scorciatoia per evitare di fare i conti con l’esigenza di sciogliere le contraddizioni interne, di elaborare una pastorale antimafia, di definire con precisione i contorni del “peccato di mafia”, di stabilire una linea di comportamento uniforme per i parroci che impedisca processioni con “l’inchino” davanti a casa dei boss, padrinati imbarazzanti come quello di Riina junior, infiltrazioni nelle confraternite, sponsorizzazioni delle feste rionali, ma anche eccessi “giustizialisti” a favore di telecamera, come l’esclusione del figlio diciassettenne del boss Giuseppe Graviano dalla cresima in cattedrale.
Le coraggiose prese di posizione di alcuni vescovi come Michele Pennisi a Monreale (la diocesi governata fino a vent’anni fa dal discusso Salvatore Cassisa), il lavoro di responsabilizzazione dei parroci avviato a Palermo dall’arcivescovo bergogliano Corrado Lorefice (che debuttò ricordando dall’altare anche i martiri “laici” come Peppino Impastato) potrebbero riattivare energie spente in due decenni di bonaccia. Il documento diffuso ieri dà eco a queste istanze, con forti accenti autocritici sui «silenzi» del passato remoto e, in quello più recente, sull’incapacità di «passare dalle parole ai fatti». Servono altre voci alte, altri pugni branditi e altri indici puntati, alla maniera di Karol Wojtyla nella Valle dei templi. Il beato Puglisi non servirà a molto se resterà in una nicchia sotto l’aureola. Converrà tirarlo giù dagli altarini adorni di ceri e riportarlo nelle strade da dove è venuto. Perché aiuti tutti, credenti e no, a farsi accendere dalla santa rabbia, a cacciare i mercanti (e i mafiosi) da tutti i templi.
La Repubblica Palermo, 10 maggio 2018

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