lunedì, marzo 23, 2015

La giungla dei beni confiscati: «Basta conflitti di interessi nell'Agenzia che li gestisce»

Rosi Bindi
Lo dice a “l'Espresso” Rosy Bindi, presidente della commissione antimafia. Segnalando il caos che regna nell'amministrazione del tesoro sottratto ai clan. Beni che dovrebbe essere una risorsa per il Paese. Invece spesso vengono utilizzati male o per niente. Con un'Agenzia creata ad hoc che non funziona come dovrebbe. E dove non sono mancate nomine discutibili
di ROCCO VAZZANA
La disfatta dello Stato contro i clan è in un'immagine: le porte sbarrate del Cafè de Paris di via Veneto, il simbolo della dolce vita romana. Chiuso per sempre. La sua fine inizia con la confisca, che da opportunità si è trasformata in condanna a morte. E così per tante altre aziende. Sono pochi i casi di imprese infatti sequestrate e rinate. «I beni sequestrati e confiscati non sono ancora tracciati, credo non  esista una vera banca dati». A raccontare il parziale fallimento della legge sul riutilizzo sociale dei tesori sottratti alla criminalità organizzata è Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia. Palazzi, imprese, cliniche, supermercati e terreni agricoli. Beni di ogni genere di cui non si conosce neanche il numero. O meglio, esistono alcuni dati ufficiali, ma bisogna scegliere a quali affidarsi tirando a sorte.

I numeri misteriosi
Per l'Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati - che dovrebbe catalogare, amministrare e destinare questo patrimonio - le proprietà strappate ai boss ammontano a 12.944, ma la rilevazione è ferma al 7 gennaio del 2013 e i dati riportati sono “presi in prestito” dall'Agenzia del demanio. Sarebbero invece più di 20mila le confische definitive di immobili e aziende secondo il ministero della Giustizia, che ogni sei mesi presenta al Parlamento una relazione sul tema (l'ultimo report risale al settembre 2014). 

Un'inchiesta dei quotidiani locali del Gruppo Espresso mette in luce dove crescono e quante sono le proprietà che le istituzioni strappano alla criminalità organizzata. Ma in alcuni casi, dopo la confisca, le aziende faliscono o i beni non vengono gestiti con attenzione
«Noi ci affidiamo alle stime del ministero. Però il problema della catalogazione è reale», dice la presidente della Commissione parlamentare antimafia, che sul tema ha prodotto una relazione dettagliata sfociata in una proposta di legge di riforma dell'Agenzia nazionale. «Se si facesse oggi una domanda su un determinato immobile - prosegue Bindi - per sapere il giorno in cui è stato sequestrato o se si è arrivati a confisca definitiva, per capire se sia stato assegnato a qualcuno o per conoscerne la gestione da parte dell'amministratore giudiziario, non si troverebbero risposte immediate. Almeno non per tutti i beni».

Eppure uno dei motivi che aveva spinto il legislatore a istituire un'agenzia nazionale era proprio questo: fornire certezza sui dati. Tanto che, per la creazione di un sistema per la gestione informatizzata dei beni, il Programma operativo nazionale sicurezza dell'ottobre 2010 ha approvato lo stanziamento di oltre 7 milioni di euro, di cui 6 milioni già liquidati. La realizzazione del bando, secondo il sito opencoesione.it , avrebbe dovuto avere inizio nell’aprile 2011 e terminare nel settembre 2012. Ad oggi, però, non c'è traccia del database.

Ma il prefetto Umberto Postiglione, direttore dell'Agenzia, non ci sta a fare la parte del bersaglio facile e in un recente dibattito pubblico organizzato dalla Cgil ha sottolineato: «Non ho a disposizione nemmeno un miliardesimo dei mezzi che mi servirebbero. Né sotto il profilo dell'organico, né sotto quello delle norme». Sull'organico Postiglione non ha tutti i torti. Per gestire migliaia di beni, infatti, l'ente da lui diretto può fare affidamento solo su 37 dipendenti.

L'Agenzia che non agisce
«Indubbiamente l'Agenzia è stata investita fin da subito di compiti superiori alle proprie forze», ammette Rosy Bindi che propone una riforma strutturale del sistema: «Credo sia più utile prevedere un'agenzia con un potere esclusivo solo nella fase dell'assegnazione del bene, e che quindi può avere una struttura agile, non burocratica con la quale affiancare anche l'opera degli amministratori giudiziari».

Il ruolo dell'Agenzia, dunque, verrebbe relegato alla fase conclusiva del procedimento giudiziario (quello dell'assegnazione), restituendo pieni poteri a magistrati e amministratori anche dopo la confisca di primo grado. La proposta della Commissione parlamentare antimafia prevede inoltre di sottoporre l'ente guidato da Postiglione alla vigilanza della Presidenza del consiglio, sottraendola così al ministero dell'Interno, in modo da poter attivare più agilmente tutte le amministrazioni interessate: Giustizia, Lavoro, Sviluppo economico.

Una soluzione gradita anche al sindacato. «Non possono essere i dicasteri della “repressione”, Giustizia e Interno, a occuparsi in maniera esclusiva di beni confiscati», spiega Salvatore Lo Balbo, segretario generale Fillea/Cgil. «Per quanto riguarda le aziende, ad esempio, servono piani industriali per rilanciarle. Bisogna coinvolgere il ministero per lo Sviluppo economico in un percorso di bonifica produttiva».

Per rendere più efficiente la macchina dei beni sottratti alle mafie, secondo Bindi è indispensabile anche spostare la sede nazionale dell'Agenzia a Roma. Per una questione istituzionale, prima di tutto. E perché da Roma sarebbe più facile attivare le professionalità e le competenze necessarie provenienti dalla pubblica amministrazione. «Mantenendo però quella di Reggio Calabria per il suo valore simbolico - specifica il presidente - e attivando sedi periferiche che nella nostra idea dovrebbero essere nuclei specializzati a questo fine presso le Prefetture».

Magari sarebbe necessario rivedere anche i criteri di selezione dei dirigenti dell'Agenzia. Soprattutto dopo il fragore prodotto dal “caso Montante”, il presidente di Confindustria Sicilia e membro del direttivo dell'Agenzia, indagato dalla Procura di Caltanissetta per reati di mafia. «Secondo me il problema di Montante non riguarda solo i fatti che sono emersi e su cui dovrà far luce la magistratura - chiarisce Bindi -. Il problema sta nel suo conflitto d'interessi. Perché nella nostra proposta di gestione dei beni confiscati, Confindustria - come le altre associazioni - ha un ruolo importante. Se vogliamo attivare ad esempio il tutoraggio delle imprese, Confindustria è un interlocutore indispensabile ed è chiaro che non può far parte dell'organo che decide l'assegnazione». Un conflitto d'interessi che la Commissione aveva già segnalato al ministro Angelino Alfano, responsabile della nomina di Montante all'Agenzia.

Chi amministra gli amministratori?
Ma per far funzionare l'antimafia non basta riformare l'Agenzia. Il sistema presenta falle in più punti. A partire dall'amministrazione giudiziaria. Da anni si attende la creazione di un albo degli amministratori che ancora risulta non operativo. E nel frattempo la selezione delle professionalità necessarie a gestire i patrimoni confiscati è affidata agli Uffici misure di prevenzione dei Tribunali. «L'albo è necessario, bisognerebbe chiedere al ministero della Giustizia perché non è ancora attivo - precisa Bindi - Il problema è che un po' di anarchia fa comodo a tutti». In assenza di regole precise, infatti, tutto è normato dalla prassi.

Il compenso degli amministratori giudiziari, ad esempio, è stabilito in base al valore del bene gestito e da loro stessi stimato. Un particolare che «non è normale», secondo il presidente della Commissione antimafia. «Un albo di fatto è sempre esistito presso i Tribunali delle misure di prevenzione - continua Bindi -. E in alcuni casi ha funzionato molto bene. Chiaro, non tutti hanno brillato, abbiamo anche scoperto qualche amministratore giudiziario che sostanzialmente era stato indicato dal proprietario a cui era stato sottratto il bene».
Per questo, la proposta di legge scaturita dal lavoro della Commissione prevede regole più strette anche per l'amministrazione giudiziaria. Il curatore nominato dal Tribunale, per l'Antimafia politica, non dovrà più essere un semplice custode, dovrà lavorare per il rilancio del bene, trasformarsi quindi in manager. Dovranno essere esplicitati inoltre i criteri di selezioni delle professionalità. E bisognerà mettere nero su bianco il “costo della legalità”. Quanto denaro pubblico viene speso - ad esempio - per retribuire amministratori e consulenti è un altro mistero italiano. «Anche questo dato dovrebbe essere inserito nella famosa banca dati che ancora non ha visto la luce - dice sconsolata Rosy Bindi -. Perché quando io parlo di tracciabilità dei beni, si deve sapere in mano a chi è in quel momento, quanto ci costa, cosa sta facendo l'amministratore, quali sono le difficoltà per rilanciarlo».

Un piano industriale contro le mafie.
Rilanciare un'azienda non sempre è possibile. Spesso le imprese confiscate falliscono appena uscite dal circuito illegale di cui si nutrivano. Ma tenere in piedi un società sequestrata è ancora più complesso se lo Stato non conosce neanche il tipo di società sottratta ai boss. Non esiste alcun censimento “ufficiale” che distingua le aziende per bene prodotto. Né è possibile fare una stima precisa dei lavoratori coinvolti.

Per capire quanti dipendenti siano interessati da provvedimenti di sequestro o confisca dobbiamo affidarci alle statistiche elaborate da soggetti non istituzionali. Secondo la Cgil, ad esempio, potrebbero essere circa 100mila i lavoratori coinvolti. «Solo nella filiera delle costruzioni, ci sono 35mila addetti interessati dalle confische», dice Salvatore Lo Balbo. «Di questi, solo 2mila lavorano ancora, includendo in questa cifra i dipendenti in cassa integrazione».

Ma se la maggior parte delle azienda confiscate fallisce, rischia di svuotarsi di significato la stessa legge sul riutilizzo sociale dei beni. Per evitarlo, servono investimenti pubblici. «Riportare un'impresa alla legalità comporta dei costi che inizialmente devono essere sostenuti dallo Stato», afferma Rosy Bindi. «Servono anche strumenti perché chi ha fatto prestiti non interrompa la linea di credito e dia anche un contributo al rilancio. Tutti i beni in cui ci imbattiamo hanno o un mutuo o un finanziamento dalle banche. Io non dico che le banche siano in correità, ma per distrazione o negligenza hanno contribuito ad arricchire un mafioso. A questo punto devono pagare un prezzo alla comunità».

In alcune sezioni dei Tribunali per le misure di prevenzione sono stati firmati dei protocolli con gli istituti bancari che vanno proprio in questa direzione. L'obiettivo della Commissione antimafia è di trasportare quei protocolli a livello nazionale. Nella speranza che in mezzo a tanta confusione siano proprio le banche a garantire trasparenza.

L’Espresso, 23 marzo 2015


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