sabato, aprile 18, 2020

Intervista ad Alessio Di Modica, autore dello spettacolo "OSSA", il "cunto" sulla vicenda Rizzotto. "Che emozione metterlo in scena!"


Alessio Di Modica in scena
Alessio Di Modica è attore, scrittore e autore teatrale. Ma è soprattutto un narratore di “cunti”. Originario di Augusta, con le sue storie spesso raccolte in strada sta contribuendo a salvare tante memorie che rischiavano di andare perdute. Quando ha conosciuto la storia di Placido Rizzotto se n’è innamorato talmente tanto, che ha realizzato lo spettacolo OSSA. Con la sua affascinante tecnica oratoria Di Modica riesce a catturare l’attenzione del pubblico per un tempo molto lungo. “Ossa – dal racconto popolare dell’osso che canta, alla storia di Placido Rizzotto” è andato in scena già due volte a Corleone, nel 2014 e nel 2018. Ma crediamo che gli studenti delle scuole corleonesi dovrebbero vederlo ogni anno, inserirlo nelle loro attività culturali. Con Alessio siamo diventati amici. Ogni tanto ci sentiamo. Gli abbiamo chiesto un’intervista e lui ce l’ha concessa con grande disponibilità. Leggiamo cosa ci ha detto.   
DINO PATERNOSTRO INTERVISTA ALESSIO DI MODICA

Hai rappresentato due volte a Corleone la storia di Placido RIZZOTTO con la tecnica antica ed efficace “dell’osso che canta”. Un successo enorme perché sei riuscito ad emozionare il pubblico. Sei stato fantastico. Te l’aspettavi?

La cosa più emozionante di Corleone è stato avere tra il pubblico al debutto i familiari di Rizzotto, alcuni superstiti di Portella e i protagonisti del movimento di memoria che ha portata a galla la storia di Placido negli anni, un movimento necessario per la sua memoria. Era la prima volta che nel mondo dell’arte si faceva una ricostruzione storica della sua sparizione, del suo omicidio, dei depistaggi e della morte di Letizia. Abbiamo studiato tutto dettagliatamente e rispettato la storia nei sui particolari  senza però diventare troppo giornalistici mantenendo la forza e la poetica del linguaggio del cunto che a volte diventa lirismo straziante. Ci piacerebbe che questo lavoro diventi un patrimonio che la città possa valorizzare. Proprio in questi anni  in cui, per esempio, in Francia hanno fatto gli spot sugli stereotipi sulla vostra città, noi abbiamo girato l’Italia raccontando un’altra Corleone, una scelta e un lavoro  che molti nella vostra città non hanno ancora compreso, ma c’è tempo, del resto si è dovuto aspettare molti anni per i funerali di Stato a Rizzotto, ogni cosa ha i suoi tempi. Fortunatamente non ci siamo fermati e Corleone per noi è stato solo il punto di partenza. Poi abbiamo il mandato del nipote di Placido Rizzotto di abbracciare il pubblico da parte sua ogni volta che finiamo lo spettacolo, dice così perché lui che l’ha visto tante volte ogni volta mi abbraccia forte per l’emozione.
Lo spettacolo l’hai portato in giro per l’Italia. Che accoglienza ha ricevuto?
Da Como a Bari lo spettacolo emoziona, questa è la cosa più importante di uno spettacolo teatrale. Oggi con la scusa del teatro di impegno civile questo si è perso, si pensa che il tema sia più importante della tecnica e invece il pubblico deve viaggiare e in questa storia viaggia. Molti non conoscono la storia nei dettagli di Rizzotto e di Letizia e quindi oltre all’emozione  dopo c’è sempre la voglia di chiedere qualcosa sulla tecnica e  sulla ricerca . Si c’è  tanta ricerca alle spalle: ore e ore di persone ascoltate, cercare lo spirito dei luoghi , capire cosa l’immaginario collettivo ha salvato (a volte a livello inconscio) e assecondarlo , tante volte ho percorso la strada che Rizzotto ha fatto la notte in cui venne rapito, o la strada che faceva dalla camera del lavoro a casa ogni sera, per sentire quella scia, quell’atmosfera, cercare di vedere coi suoi occhi. Ogni storia che racconto mi deve toccare profondamente, sennò non mi interessa. E ad ogni replica di OSSA c’è sempre qualcuno, un’associazione, un collettivo, il rappresentante di un presidio,  un  direttore artistico che poi l’organizza e ogni volta è un successo, una grande emozione. C’è anche da dire che quando si parla di questi temi si parla di vittime e invece la storia racconta di persone che hanno vinto, di un movimento delle terre che riusciva ad andare oltre lo stato quando questi si schierava dalla parte sbagliata. Oggi siamo eredi nella gestione dei beni confiscato di quel grande movimento, se oggi in questo paese ci sono leggi all’avanguardia rispetto a questo è perché loro hanno cambiato qualcosa.

Perche queste storie catturano ancora oggi nel terzo millennio gli spettatori?
Le storie piacciono sempre alle persone, di tutte le età. Spesso nelle scuola gli insegnanti mi dicono “ma loro non reggono più di 20 minuti” e invece alla fine stanno più di un ‘ora ad ascoltare e fanno pure tante domande. La narrazione è una delle tecniche più antiche, una cultura diventa tale quando ha un patrimonio di storie in cui identificarsi, quindi 70 anni di mass media non hanno potuto distruggere qualcosa insita così profondamente nell’essere umano. È un teatro popolare nel senso alto del termine che parla la lingua della strada, che abbatte la quarta parete, non un teatro borghese che da un piedistallo parla una lingua autoctona e fredda.

L’arte, il teatro, l’impegno civile contro la mafia. La spunteremo?
Mah. C’è un’ invasione del tema che non fa bene. Ci si approccia a storie di vittime di mafia con sensazionalismi, con tanta disinformazione o superficialità. Non siamo più nella fase storica “purchè se ne parli”, adesso l’arte ha il dovere di parlarne bene, con profondità. Figure come Peppino Impastato sono state svuotate dalle loro motivazioni  politiche; a volte si insegue un’onda, un momento, una  moda. No non fa bene. In un momento in cui il problema dell’antimafia è una certa antimafia finta, funzionale, da parata che leva spazio e credibilità a una lotta vera. Capita di vedere l’uomo del politico plurindagato, pluricondannato organizzare rassegne e iniziative sulla legalità e si trova sempre qualcuno che “guarda al di la di tutto questo” che è pronto riempire e a partecipare a queste iniziative.  Lo abbiamo visto in Sicilia l’antimafia non deve essere un carrozzone ma un’idea ben precisa. Nel frattempo tante persone rischiano ogni giorno davvero. Sono andato una volta nella scuola di fronte alla città delle scienze di Napoli pochi giorni dopo che era stata bruciata e c’era un preside di cui nessuno conosce la storia che aveva appena vinto una causa contro una ditta appoggiata dalla camorra, erano entrati e si erano presi la palestra della scuola per farci un parcheggio, lui ha lottato finché ha vinto. Quando l’ho incontrato mi  ha detto che il suo lavoro funzionava meglio in silenzio, lontano dai clamori e da chi voleva proclamarlo eroe, mi ha detto “non servono eroi, ma normalità”.   In questi anni ho girato tanto pure nei beni confiscati , per esempio a Cascina Caccia in Piemonte dove un gruppo di ragazzi per anni ha lavorato a far diventare quel bene, che era del clan Belfiore, un punto di riferimento culturale e sociale per il Piemonte, cercando sempre il modo di reinventarsi e non lasciare che il posto sia un luogo in cui andare e basta, ma un luogo con una storia che vuole scriverne una nuova, il passato senza una prospettiva futura è retorica. Non si può campare di rendita in questo. Oppure ho fatto OSSA in spiaggia al Faber Beach dove un gruppo di ragazzi vicina a Libera stavano gestendo un lido confiscato a Ostia, in mezzo al problema di un contesto fascista e corrotto, con le istituzioni che remavano contro. Lì quei ragazzi facevano un’antimafia vera,  lottavano.  Ogni contesto è diverso, oggi le leggi si possono aggirare, quindi non basta uno spettacolo a combattere la mafia, non servono i processi che a volta non riescono ad esprimersi per come dovrebbero, serve guardare con occhi attenti ognuno il proprio territorio e poi fare delle scelte, anche se a volte sono scelte impopolari perché nei contesti la mafia spesso si esprime come un modo di concepire la cosa pubblica, quindi senza morti e senza coppola, una mafia che entra nei modi quotidiani dei pensare delle persone fino a diventare normale abitudine. Bisogna rompere queste abitudini, fare del diritto  una cosa normale e invece tante volte si confonde il diritto con il favore, e questo come lo chiamiamo?  Ma che volete viviamo in paese in cui i partigiani erano ritenuti Banditi. Allora dico meglio fare meno spettacoli ed essere più attenti ai propri territori senza cedere spazio, lavorando a far vedere quanto la mafia sia fatta oggi di colletti bianchi e di poteri politici, avere sempre senso critico costruttivo.   

A cosa stai lavorando in questo periodo?
Nonostante il periodo siamo partiti con una campagna crowdfunding che stiamo preparando da una anno. Stiamo riprendendo il nostro primo lavoro di narrazione del 2002 che raccontava i fatti del G8 di Genova del 2001, quando l’allora governo del Polo delle Libertà fece una “macelleria messicana”
Abbiamo sentito la necessità di riprendere quella storia col sennò dei quasi 20 anni passati. In quegli anni ci fu un grande movimento su scala globale che trattava temi, dall’acqua, alle migrazioni, diritti lavoratori, guerre, grandi speculazioni finanziare e si cercavano le soluzioni quando tutti questi temi non erano emergenze. Quell’idea di incontro politico e di movimento fu attaccata e distrutta dopo Genova. Invece fu il più grande progetto di rete politica degli ultimi 30 anni. Oggi raccontare quei fatti è un dovere perché in molti lo hanno scordato e le nuove generazioni non sanno. Così attiveremo questa campagna per organizzare il PARTIGIANI DELLA MEMORIA TOUR, una serie di anteprime in cui raccoglieremo testimonianze non solo di chi era alle manifestazioni di Genova ma anche come si era impegnati e dove in quegli anni, per costruire un grande archivio. Questo percorso ci porterà fino al 2021, al ventennale dei fatti di Genova.  Anzi se volete contribuire qui c’è il link
Dopo questo momento così difficile  è necessario che si veda il teatro come necessità per l’anima


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