venerdì, marzo 28, 2014

Vent'anni fa ci lasciava Giacomo Giardina, il "poeta pecoraio"

Il poeta-pecoraio Giacomo Giardina (Foto G. Franco)
GIOVANNI FRANCO
Si muoveva nei vicoli quasi volteggiando. Costeggiando  i muri delle case con passo spedito. Era il poeta pecoraio l'ultimo dei futuristi siciliani. Filippo Tommaso Marinetti, presentandolo ufficialmente ad un convegno a Palermo nel 1927, gli dedicò questi versi: ''Corpo di gabbiano, assottigliato e quasi scarnificato dallo sforzo di vincere il libeccio, Giacomo Giardina, se declama, rassomiglia anche al più convulso e tragico ulivo dei promontori siciliani''. A venti anni dalla sua morte, avvenuta il 24 settembre del 1994 a Bagheria, quando aveva 93 anni, lo ricordo con la sua borsa di pelle logora, piena di appunti e di fogli scritti a penna, di ritagli di giornale.
Con poesie sempre pronte da recitare, con l'immancabile sigaretta in bocca. Per lui infatti ogni momento era buono per attirare l'attenzione. Insofferente verso chi non lo ascoltava con attenzione. Visse negli ultimi anni, ultranovantenne, in una ''casa-garage'' a Bagheria. L'ingresso era una saracinesca. Nell'unica stanza al primo piano conservava stipati in alcune scatole: manoscritti, disegni, ritagli e appunti. Fu una piccola pensione di bracciante agricolo che forse gli impedì di ricevere il vitalizio della legge Bacchelli, sussidio statale riservato agli artisti indigenti. A 15-16 anni, scappato da scuola, Giacomo si rifugiò in quelle alture sopra Godrano e visse lì per un anno a ridosso della maestosa Rocca Busambra, in pagliai e fienili. Fece, a contatto della natura, il pecoraio. Ricordava: 
''Lontano dalla famiglia, il proprietario mi apprezzava dicendo: come figlio di un maestro, sei capace di fare il pecoraio, ma altre volte mi rimproverava perché io pensavo e scrivevo e le pecore andavano sul seminato a rovinare''. ''Poeta pecoraio?'', gli chiedevano: ''Sempre pecoraio'', rispondeva a tappo. E recitava: ''Rocca Busambra, quante lunghe notti riposai al tuo piede granitico, quante notti mirai la tua meravigliosa veste incantata fasciata di scintillamenti, incipriata di luna e carezzata d'echi dolci profondi...''.


Nel 1944, Giardina abbandonò l'attività letteraria per fare il venditore ambulante di biancheria. Ma nel 1959, esortato da Francesco Carbone, critico d'arte, riprese a scrivere senza però abbandonare il commercio. E non si fermò più, fino alla morte. Era permalosissimo. E i suoi amici lo sapevano. Un noto poeta dialettale un giorno in visita a Godrano, paese natale di Giardina, raccontò alla gente che il loro compaesano era morto improvvisamente. Qualche giorno dopo il poeta pecorario, arrivando nel paese del Corleonese fu accolto da tanta gente incredula nel rivederlo vivo e in buona salute. ''Signor Giardina, ma non era morto?'', gli chiesero. Fatti gli scongiuri il poeta si infuriò moltissimo con l'autore dello scherzo al quale ''tolse il saluto per alcuni mesi''.
Ma non erano tutti così i suoi amici. Stretti furono i suoi rapporti con Renato Guttuso. Nel dicembre del 1974, l'autore della ''Vucciria'' gli scriveva, ''Caro Giacomo, fin dall'ormai lontana adolescenza ho imparato ad amare la tua poesia, la fresca indipendenza della tua immaginazione, il tuo sentimento della natura e della gente umile''. Il grande pittore spesso gli regalava dei disegni. Uno di questi ''omaggi'' fu smarrito perché Giardina lo aveva posato sul tetto dell'auto dell'amico Carbone con il quale era andato a trovare Guttuso nella sua casa a Palermo. Ma non ne fece un dramma. ''Pazienza'', disse con un sorriso smorzato. Ma se si rassegnava ad una perdita dal valore anche economico come questa il poeta pecoraio non transigeva quando si trattava di risparmio. Sia per le sue condizioni economiche, sia per il suo animo di attento commerciante ambulante. E non si fece alcuno scrupolo nel chiedere uno sconto del biglietto d'ingresso al cassiere del cinema Arlecchino di Palermo dove proiettavano ''Cristo si è fermato a Eboli'', nel quale il regista Francesco Rosi gli aveva affidato una piccola parte. ''Sono uno degli attori, posso entrare gratis'', esordì. Ma prima che la maschera rispondesse, Carbone lo rimproverò bonariamente. ''Giacomo permettimi di pagare'', gli disse. Ma il riscatto arrivò in sala. Eravamo in pochi. Quando sullo schermo apparve Giardina nella parte di un becchino, alcuni spettatori si girarono verso di lui, la sua figura non passava inosservata, e lo applaudirono. Lui si schernì e ringraziò con malcelato pudore.
La sua più grande soddisfazione la provava nel recitare i suoi versi. Leggeva con la sua voce ansimante le poesie vergate a penna o scritte a macchina su fogli di velina. Era talmente intento nella recitazione che un giorno non si  accorse che il suo unico interlocutore, a casa del quale era ospite, si era sentito male ed aveva perso i sensi dopo cena. Quando il suo amico si rianimò infuriato chiese al poeta di andarsene. Giardina allora si accese una sigaretta e salutò in maniera distratta con malcelato fastidio. Andò via con la borsa perennemente a tracolla dove conservava liriche, lettere, ritagli di giornali e riviste che lo riguardavano, persino disegni che lo ritraevano di amici pittori. Ne realizzarono Renato Guttuso, Bruno Caruso, Carlo Levi, Carlo Puleo. Lo ricordo felice insieme alla troupe di Raitre in un rifugio nel bosco di Ficuzza in una pausa della lavorazione del film diretto da Nuccio Vara sulla sua vita. Aveva un titolo molto azzeccato: ''Bosco per verso''. Era il 1985. Andai a intervistarlo per il giornale ''L' Ora''. Fu felice di vedermi. E per un po' dimenticò la mia parentela con Salvatore Quasimodo che a suo giudizio ''non meritava il Nobel''. Baruffe tra poeti. 
Giovanni Franco

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