venerdì, febbraio 17, 2017

GIANNI PARISI. "Dal comunismo a Facebook la mia vita di etica e passioni"

Gianni Parisi in primo piano. Sullo sfondo Nino Mannino
TANO GULLO
Ho seguito l'evoluzione del Pci, in Pds e Ds. Adesso voto per il Pd, ma non mi sono iscritto al partito: ho visto molte facce democristiane con le quali non avrei nulla da spartire. È vero: siamo pieni di scandali e corruzione, ma io continuo a credere nella politica e nel fatto che gli uomini politici siano mossi dalla passione e non dalla ricerca del denaro: fare di tutta l'erba un fascio è sempre sbagliato. Io, del resto, sono stato educato dalla lettura di Gramsci all'ottimismo della volontà. Quando ero piccolo ospitammo a casa nostra Girolamo Li Causi minacciato dalla banda Giuliano. Mi insegnò che il carattere e la forza dell'uomo si vedono nelle sconfitte: questo mi ha aiutato anche a superare le tragedie della mia vita, la perdita di una figlia e un'indagine per mafia. Bufalini mi mandò a studiare a Mosca: lì mi sposai e nacque il mio primogenito. Avevo creduto a Crocetta e alla sua lotta contro le cosche. Ora sono deluso: meglio tornare a votare.

Due fronti che a Gianni Parisi, ottanta anni appena compiuti, hanno dato grossi dispiaceri: il comunismo lo ha piantato in asso e per colpa di un pentito, dopo una vita specchiata di militante e amministratore, è stato addirittura inquisito – e poi assolto – per concorso esterno in associazione mafiosa. Alle pareti della sua casa la cronaca dei suoi anni: tante foto con i leader del Pci, con la figlia Elena morta diciottenne in un incidente stradale in Francia, con gli altri due figli, con i tre nipotini, con la moglie russa Svetlana. Poi tele e sculture dei suo amici artisti, Carlo Attardi, Mario e Aldo Pecoraino, e diverse stanze traboccanti di libri.
Ottant'anni pieni di cariche, guardando all'indietro: deputato all'Ars, segretario del Pci, assessore regionale, fondatore del Centro Pio La Torre. E oggi?
«Se vuol sapere qual è la mia collocazione politica, le dico subito che non sono iscritto al Pd, anche se continuo a votarlo. E chi altro potrei votare? Diciamo che ho seguito il partito comunista in tutte le sue evoluzioni, Pds, Ds, ma non me la sono sentita di aderire all'ultimo stadio».
Come mai?
«Nel Pd ho visto vecchie facce democristiane con le quali ritengo di aver poco da spartire. Per cui mi sono fatto da parte. Per fortuna ci sono tante cose belle per riempire la vita. La famiglia innanzitutto, poi la scrittura e la lettura dei miei amati siciliani, Sciascia, Consolo, Vittorini, Tomasi di Lampedusa. Infine tante ore su facebook, che mi consente di essere dentro le vicende che travagliano il mondo e di tenermi in contatto con i vecchi compagni».
Lei è cresciuto nei rigori del partito dalle mani pulite, è stato dirigente ai tempi di Berlinguer che della questione morale ha fatto la sua bandiera, cosa ne pensa degli scandali che coinvolgono amministratori e burocrati di sinistra?
«Me ne addoloro, ma questa è la realtà. I politici d'altra parte sono la proiezione di questa società che ha messo il denaro al centro di ogni cosa. Da anni c'è un continuo degrado sul fronte della moralità pubblica. Chi può ruba, ma nonostante ciò continuo a pensare che la maggior parte dei politici siano persone per bene, mossi dalla passione. Guai a fare di tutta l‘ erba un fascio. Continuo a mantenere quell'ottimismo della volontà a cui ci ha educato Gramsci».
Come è iniziata la sua avventura di comunista?
«Mio padre e mia madre erano iscritti al partito e per circa un mese si nascose a casa nostra Girolamo Li Causi perché si temeva un suo rapimento da parte della banda Giuliano. Proprio in quei giorni ci fu la sconfitta elettorale del Fronte popolare nel ‘48. E io ragazzo, contagiato dal fervore del grande leader, ero molto avvilito. Ma Li Causi mi redarguì. "Vincere è facile, ma è nelle sconfitte che si vede il carattere di un uomo". Una lezione che non ho mai dimenticato. E che mi ha aiutato a superare i dispiaceri politici e i dolori che hanno segnato la mia esistenza, come la morte di mia figlia e i due anni sulla graticola del sospetto fino a che i magistrati non mi hanno restituito l'onore».
Dopo Li Causi?
«Il partito ha mandato a Palermo Paolo Bufalini - grande cervello, futuro ispiratore della politica del compromesso storico – per mitigare gli eccessi verbali di Li Causi, rimasto legato all'esperienza estremista della Terza internazionale. Si passò così degli improperi verso i democristiani apostrofati come "carogne" dal vecchi segretario alla trama del dialogo intessuta dal nuovo leader. Nel frattempo io rimasi orfano e Bufalini pensò di farsi carico del mio avvenire e sul finire degli anni Cinquanta mi mandò a studiare in Russia».
Alla famosa scuola di partito? Erano tutte rose e fiori nel paese del socialismo reale?
«Per la verità noi vivevamo una realtà separata. E poi gli anni della guerra fredda, condizionavano anche la percezione sociale. Comunque dopo sei anni di studi, un matrimonio e un figlio, sono tornato in Italia dove ho cominciato la vita di dirigente comunista. Anni duri, il sacco di Palermo, Ciancimino, la mafia, ma anche le prime aperture, il centrosinistra, la partecipazione diretta al governo regionale».
Anni esaltanti che vedevano il Pci in prima linea in ogni battaglia sociale, in ogni corteo operaio. Nostalgia di quel partito capillare?
«Come non averne. Il Pci era radicato in ogni dove, fino al più sperduto paesino. Nelle sezioni si discuteva di politica e i compagni avevano un punto di riferimento per trovare difesa da soprusi e ingiustizie. Oggi purtroppo quel mondo è tramontato. Tutto intorno a noi è diverso da prima e bisogna farsene una ragione».
Cosa pensa del governo Crocetta?
«Ho conosciuto il presidente quando era sindaco di Gela. Mi aveva fatto una grande impressione il suo impegno antimafioso. I boss lo avevano minacciato davvero. Oggi mi sento molto deluso, dalla sua politica. Per cui ritengo che sarebbe opportuno andare a votare e dare la voce agli elettori».
Anche il Pd, con le sue due anime, non aiuta a far uscire la Sicilia dalle secche…
«Solo due anime? Meglio il voto che il limbo».
Dopo il suo addio alla politica si è dato alla scrittura, romanzi in cui lo sfondo è sempre la politica. In "Una storia capovolta" pubblicata da Sellerio racconta una disavventura giudiziaria, che è la sua vicenda di indagato, poi ne "Il contagio" (Pironti) e ne "La storia di Rosa" (Navarra), rappresenta il marcio dei nostri tempi, corruzione, tangenti, ricatti e mafia. Ma in ogni libro c'è un finale che esorta alla speranza. Sempre ottimista?
«E sempre di più. Guai a farsi vincere dallo scoramento. L'insegnamento di Li Causi mi è compagno di vita».
D'altra parte lo diceva anche San Paolo che bisogna sperare al di là di ogni speranza.

La Repubblica, 06.12.2005

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