mercoledì, febbraio 08, 2017

Da analfabeti a laureati: la rivoluzione culturale dei nuovi padrini

ATTILIO BOLZONI
Da Dostoevskij a Pennac, ma anche Dickens, l’Eneide e le suore mistiche Ecco le opere sui comodini dei capi di Cosa Nostra
È LA generazione di mafia più colta. Per forza: sono rinchiusi da anni nella dannazione del 41 bis e tutti soli con Dostoevskij e i fratelli Karamazov, con Tolstoj, Svevo, Pasternak, Pirandello, con i filosofi tedeschi, i teologi protestanti, Virgilio e Kant. In Italia si legge sempre di meno ma “dentro” sempre di più. A parte quello zoticone di Totò Riina che è rimasto come dice lui stesso, “un seconda elementare”, gli uomini della Cupola si sono allitterati, hanno studiato, da seminalfabeti che erano molti hanno preso una e anche due lauree, si sono immersi nella storia e nei misteri della religione, avidi di discipline umanistiche e anche scientifiche. È un altro mito che cade nella Cosa Nostra che non c’è più perché ce n’è una nuova dentro e fuori il carcere.

Una volta nei loro covi c’era sempre una Bibbia sul comodino e in qualche cassetto Il Padrino di Mario Puzo, non mancavano mai i Beati Paoli e Coriolano della Floresta di Wiliam Galt, romanzi cult di un’aristocrazia criminale che è sottoterra. La mafia del 41 bis ha imparato a proprie spese e si è emancipata intellettualmente, in compagnia de Il Dottor Zivago o di Todo modo. I divieti del regime speciale carcerario non hanno offerto un’altra scelta.
Come ricorda Giuseppe Grassonelli a Carmelo Sardo — nel libro “Malerba” — quando è appena entrato nella fortezza dell’Asinara subito dopo le stragi del ‘92. Grassonelli era uno dei boss della “Stidda”, si ritrovò nell’isola del Diavolo in un loculo di cemento dove trovò una brandina di ferro e sopra un’edizione di Guerra e Pace. Provò a leggere qualche pagina e non ci riuscì, al tempo sapeva a malapena mettere la sua firma. Riprovò una, due, tre, quattro volte. E quando finalmente finì il libro scoppiò a piangere. Oggi Giuseppe Grassonelli si addentra con sofisticato piacere nel labirinto del periodo rivoluzionario napoletano del 1799, in particolare sulle “insorgenze” che coinvolsero tutte le province del Regno. E che dire allora di Gaspare Spatuzza, quello della strage di Paolo Borsellino e sempre quello — che a sentire un altro pentito — lo descriveva mentre «con una mano manciava e con un’altra arriminava», con una mano teneva stretto un panino con il prosciutto e con l’altra un mestolo di legno con il quale pestava un cadavere sciolto nell’acido. Spatuzza ha incontrato la sociologa Alessandra Dino in una struttura penitenziaria (lei ne ha poi scritto un formidabile saggio) e l’ha invitata nella sua piccola biblioteca. C’era Delitto e Castigo, c’era La coscienza di Zeno, c’erano tre volumi di filosofia di Reale e Antiseri. Poi le ha regalato una sintesi di un libro di Joe Dispensa, Cambia l’abitudine di essere te stesso, con dedica: «Chi avrebbe mai potuto immaginare che un giorno Gaspare, un seminalfabeta, fosse in grado di spiegare, anche se con le parole del Dott. Joe Dispensa, qualcosa sulla fisica quantistica?».
Ma non sono soltanto i boss del 41 bis che si sono raffinati fra trattati storici e testi ancora più impegnativi che sconfinano nell’aldilà. Anche i latitanti passavano o passano le loro giornate sui libri. Pietro Aglieri per esempio, dietro l’altare dove l’andava a trovare un fratacchione della Kalsa, aveva tutte le opere di Edith Stein, la monaca filosofa tedesca dell’Ordine delle Carmelitane Scalze che morì ad Auschwitz — era di origine ebraica — nel 1942. L’imprendibile Matteo Messina Denaro qualche anno fa dialogava per lettera sotto il falso nome di “Alessio” con l’ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino (che si firmava “Svetonio”) confessandogli, suo malgrado, «di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto», immedesimandosi nel personaggio inventato dallo scrittore francese Daniel Pennac. Nelle sue corrispondenze con “Svetonio”, Matteo ricordava anche l’Eneide, ragionava su Toni Negri, citava Jorge Amado: «Non c’è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica».
Una rivoluzione culturale. E forse a iniziarla è stato il capostipite dei Corleonesi, Luciano Liggio, uno che nonostante le “leggende” create intorno a lui sembrava più un gangster che un mafioso. Disse una volta ai commissari della prima Antimafia: «Ho letto di tutto, storia, filosofia, pedagogia. I classici. Ho letto Dickens e Croce». E sfottendoli, ha concluso: «Ma quello che ammiro di più è Socrate, uno che come me non ha mai scritto niente ».

La Repubblica, 7 febbraio 2017

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