lunedì, aprile 11, 2022

𝐈𝐥 𝐜𝐨𝐫𝐭𝐨𝐜𝐢𝐫𝐜𝐮𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐠𝐢𝐮𝐬𝐭𝐢𝐳𝐢𝐚 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐧𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐚𝐥𝐞




di GUIDO RUOTOLO

Una nuova Norimberga, chiede il presidente Zelensky. Da più parti, in Europa come negli altri continenti, a gran voce si chiede un processo contro il leader russo Vladimir Putin, per crimini di guerra. Come se fosse già pronto un Tribunale Internazionale in grado di emettere una credibile sentenza (di condanna), dimenticando che quello dell’Aja non è stato riconosciuto né dagli Stati Uniti né dalla Russia.

Ma chi decide come reagire, come punire lo Stato che invade un altro Stato che si macchia di terribili crimini di sangue, di odio razziale, di conflitti religiosi? Chi decide se per rispondere all’ “Offesa” occorra intervenire militarmente oppure è sufficiente arrestare i responsabili e farli processare da tribunali internazionali?

A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, le istituzioni internazionali che si occupavano di questo, hanno via via perso credibilità. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu è sempre di più una camera di compensazione, di neutralizzazione delle iniziative internazionali dei singoli Stati. Oggi è messo in discussione persino l’impegno delle Nazioni Unite come garante del rispetto degli accordi di pace (per esempio, con l’impiego dei caschi blu come forza di interposizione). 

Iraq, Afghanistan, Libia, Siria. Solo per parlare dei conflitti e delle guerre che ci hanno coinvolti in prima persona, raccontano ancora di più questa crisi. 

Fino a due settimane fa, sembrava che la NATO dovesse intervenire in Ucraina. Poi, il perdurare del conflitto militare ha drammatizzato lo scenario, ipotizzando da una parte la possibilità del rovesciamento della presidenza Putin in Russia, dall’altra, il coinvolgimento sempre più diretto, con il rifornimento di armi e armamenti, dell’Occidente nei confronti di una Ucraina che non cerca più il negoziato ma la sconfitta militare dei russi.

Poco più di dieci anni fa, dall’altra parte del Mediterraneo, in Libia, le Nazioni Unite decisero di intervenire nello scontro armato tra il regime di Gheddafi e le forze di opposizione, autorizzando l’intervento dei paesi occidentali.

La risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, diede il via ai primi bombardamenti della Francia di Sarkozy nella Cirenaica, per arrestare l’offensiva di ciò che rimaneva delle truppe speciali guidate da uno dei figli di Gheddafi, impedendo così un bagno di sangue a Bengasi.

Sono passati undici anni da quella risoluzione e la Libia continua ad essere un paese instabile, con una presenza ingombrante di forze straniere.

Una intera regione che si affaccia sul Mediterraneo, con le primavere arabe (Egitto, Libia e Tunisia) si è trasformata in un’area instabile. Chi ha deciso di stravolgere gli equilibri politici di quest’area? Quale tribunale internazionale ha deciso di condannare il colonnello Gheddafi sostenendo militarmente l’opposizione? 

È come se la diplomazia internazionale avesse deciso di affidarsi solo alle armi, negando così il proprio ruolo e piegando ai propri interessi le Nazioni Unite, la NATO, gli organismi internazionali.

La svolta nelle relazioni internazionali aveva avuto inizio all’inizio del nuovo Millennio, all’indomani dell’11 Settembre. Era il 7 ottobre del 2001, circa un mese dopo l’attacco alle Due torri gemelle, quando iniziarono i bombardamenti degli americani e dei suoi alleati contro i talebani in Afghanistan, i radicali islamisti al potere accusati di dare ospitalità ad Osama bin Laden e alla sua Al Qaida, l’organizzazione terroristica ritenuta responsabile degli attacchi terroristici negli Stati Uniti d’America.

Operation Enduring Freedom - così fu chiamata l’operazione militare dell’Occidente - ebbe una cornice di legittimità in alcune risoluzioni delle Nazioni Unite che si prefiggevano l’obiettivo di annientare Al Qaida, di impedire al terrorismo di utilizzare armi di distruzione di massa e tagliare i ponti tra gli Stati complici e le organizzazioni terroristiche.

L’occupazione dell’Afghanistan si è rivelata inefficace. Intanto perché Osama bin Laden fu ucciso in Pakistan il 2 maggio del 2011, dieci anni dopo l’11 Settembre, con una operazione di intelligence. E poi perché, vent’anni dopo “Enduring Freedom”, gli alleati occidentali hanno abbandonato l’Afghanistan e i Talebani sono tornati al potere.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha autorizzato l’invasione dell’Iraq sulla base del più grande inganno della storia delle diplomazie angloamericane. Tony Blair e George Bush convinsero il Palazzo di Vetro ad autorizzare l’attacco perché ritenevano che il dittatore Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzione di massa.

Il 10 ottobre del 2002 la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti approvò a larga maggioranza una risoluzione che conferiva pieno mandato al Presidente all’uso della forza contro l’Iraq qualora tale Paese insisteva a non collaborare con la Comunità internazionale. L’8 novembre del 2002 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvò la risoluzione 1441, che invitava l’Iraq ad eseguire i dettati delle risoluzioni, procedendo al disarmo di armi biologiche o biochimiche. Sempre il regime iracheno doveva autorizzare l’ispezione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, con l’accesso degli ispettori Onu a tutti gli impianti di produzioni di armi. In pochi giorni, il 13 novembre, l’Iraq accettò le decisioni dell’Onu. Ma servì a poco per impedire la guerra. Nel rapporto del 27 gennaio 2003, gli ispettori Onu non denunciarono concrete violazioni della risoluzione.

Il 29 gennaio otto Capi di Stato e di governo di Paesi dell’Unione Europea o prossimi alla adesione (Italia, Ungheria, Polonia, Danimarca, Portogallo e Repubblica Ceca) solidarizzano con Washington e sottolineano che la credibilità del Consiglio di sicurezza dipende dalla sua capacità di far rispettare le proprie risoluzioni adottate.

Il 5 febbraio il Segretario di Stato americano, Colin Powell, parla nel Palazzo di Vetro convinto di avere la pistola fumante, di inchiodare il regime di Saddam Hussein, di provare l’esistenza delle armi di distruzione di massa in Iraq.

Il 20 marzo ha inizio la guerra contro l’Iraq. Saddam Hussein viene impiccato il 30 dicembre 2006 dopo un processo sommario. Le armi di distruzione di massa, però, non vengono trovate.

Il Tribunale penale internazionale dell’Aja va bene per i macellai della ex Jugoslavia ma non per il dittatore Saddam Hussein. Perché? 

Con l’incendio delle primavere arabe si infiamma anche la Siria. È il 15 marzo del 2011 quando scoccano le prime scintille, con le manifestazioni popolari di protesta contro il regime. Entrano in campo diversi paesi. Il conflitto si radicalizza. Paesi del Golfo persico finanziano gruppi di sunniti radicali (gruppi salafiti) che si affacciano sul teatro di guerra.

Dunque il conflitto diventa uno scontro religioso tra fondamentalisti sunniti salafiti e il gruppo minoritario alawita del clan di Assad. L’Iran sciita scende in campo per difendere Assad. Guerriglieri sciiti arrivano dall’Iraq e dell’Afghanistan mentre i sunniti sono appoggiati dalla Turchia di Erdogan, dall’Arabia Saudita e dal Qatar.

Basta poco per fare esplodere la polveriera. Al Consiglio di sicurezza dell’Onu si vive un drammatico stallo, con i russi e cinesi che difendono Assad mentre americani, francesi e inglesi appoggiano i ribelli.

Le formazioni militari armate sunnite non trovano sostegno dalla popolazione sunnita che in gran parte appoggia il regime. Lo stallo provoca la formazione di uno stato islamico fondamentalista, l’Isis, tra l’Iraq e la Siria. I suoi combattenti arrivano dai diversi teatri di guerra e nei fatti attraggono i fondamentalisti islamisti mettendo in crisi l’egemonia combattente di Al Qaeda.

Lo Stato dell’Isis è stato smantellato, ma ancora oggi il despota Assad continua a essere al potere. 

Si sono impantanati in Siria, gli americani. Avrebbero voluto “occuparsi” anche dell’Iran degli Ayatollah, ma hanno sospeso la ‘pratica’. 

Anche la NATO si ritrova protagonista di una guerra regionale alle porte dell’Italia. Nel 1999 la Serbia di Milosevic viene bombardata perché ritenuta colpevole di violenze e massacri nei confronti della etnia albanese del Kosovo.

Partiamo dalla fine, dal 5 novembre del 2020. Siamo nel pieno della pandemia, del COVID. Per l’opinione pubblica internazionale la notizia passa inosservata. Quel giorno, il 5 novembre del 2020, viene arrestato dal Tribunale internazionale dell’Aja il presidente del Kosovo, costretto a dimettersi alcune ore prima, Hashim Thaçi, accusato di crimini contro l’umanità commessi durante la guerra NATO del 1999 contro la Serbia.

Era l’uomo di Washington, Thaçi, scelto prima per guidare la resistenza contro i serbi di Milosevic, con le sue unità militari combattenti dell’Uck, poi, per governare il paese.

Thaçi era sospettato di trafficare in droga, armi e prostituzione in Svizzera. Fu premiato, quando il Kosovo si rese regione autonoma dalla Serbia. Prima ministro, premier e infine presidente del Kosovo. 

Gli investigatori internazionali hanno raccolto indizi (non prove) che in quelle settimane tra il 1999 e il nuovo millennio, vi furono deportazioni di massa (dal Kosovo all’Albania), omicidi, traffico di organi in un Paese, il Kosovo, protettorato delle Nazioni Unite.

Nel 2011, dodici anni dopo i fatti, furono portate avanti delle indagini della “Special Investigation task force” con sede a Bruxelles, con a capo il diplomatico americano Clint Williamson, con lo scopo di verificare le asserzioni del rapporto di Dick Marty, del Consiglio di Europa. Per tre anni la task force indagò arrivando a queste conclusioni: «Non è stato possibile raccogliere elementi probatori sufficienti per formulare una imputazione nei confronti di chicchessia. Non vi sono prove del coinvolgimento di Hashim Thaçi. Vi sono tuttavia forti indizi che su una scala molto ridotta, un piccolo numero di individui siano stati uccisi al fine di estrarne e trafficarne gli organi». «È stata accertata la deportazione illegale in Albania, tra duecento e quattrocento prigionieri serbi, rom, collaborazionisti albanesi nell’immediato dopoguerra».

Da “Michele Santoro presenta”, 7/4/2022

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