domenica, luglio 18, 2021

L’INTERVISTA. Il procuratore Lo Voi: "Dietro la strage Borsellino, mafia ma non solo"

Il procuratore Francesco Lo Voi

di CARMELO LOPAPA

La strage Borsellino fu eccidio di mafia. Ma non solo di mafia. Di certo, la più annunciata delle stragi. E lo Stato non fece tutto ciò che avrebbe potuto per proteggere il giudice e la sua scorta, trucidati il 19 luglio di 29 anni fa. Di tempo ne è passato, ma ancora tutto o quasi viene delegato alle capacità repressive della magistratura e delle forze dell’ordine. Tanto può e deve essere fatto da chi è impegnato su altri fronti. A cominciare dalla politica. La lunga campagna elettorale alle porte e il concomitante stanziamento delle ingenti risorse del Recovery destinate alla Sicilia moltiplicano invece i rischi di infiltrazioni. 

Francesco Lo Voi, dal dicembre 2014 procuratore capo di Palermo, è seduto nel salotto del suo ufficio, al secondo piano del Palazzo di giustizia. Pomeriggio di luglio, i corridoi sono deserti. Di Falcone e Borsellino è stato collega, giovane "uditore", prima di diventare sostituto. 

Soprattutto del secondo fu amico. Eppure ne ha parlato raramente, con discreta parsimonia. Ricordi centellinati. Schivo, sfuggente alla retorica delle celebrazioni. 

Stavolta il magistrato di lungo corso si accende una sigaretta in maniche di camicia, circondato dalle foto di una vita in toga, e inizia a raccontare. 

Procuratore, superando la sua proverbiale ritrosia, può provare a dirci cosa ricorda di Paolo Borsellino? 

«Sono stato uditore di Giovanni Falcone, conoscevo Paolo Borsellino già prima di entrare in magistratura, per frequentazioni familiari. Poi venni assegnato a Falcone dal consigliere istruttore Rocco Chinnici, che aveva una cura particolarissima di noi giovani leve. Già allora, era il 1981, Borsellino entrava spessissimo nella stanza del suo amico e collega. Vedevo i due parlare e tanto. Erano già impegnati in indagini molto delicate. Il mio istruttore stava seguendo quelle su Spatola, Inzerillo, Gambino, quelle sul falso sequestro Sindona». 

Lei è tra i colleghi che hanno avuto modo di parlare con il giudice nei 57 giorni intercorsi tra le due stragi. Cosa le disse? 

«Lo vidi a fine giugno ’92, poco prima di andare in ferie. Mi disse: te ne stai andando in vacanza, ce l’hai una pistola? Io ero già sotto protezione. Gli chiesi: che ci devo fare con la pistola? Lui, con una gran risata, proprio qui fuori da questa porta, in corridoio, mi rispose: "Così almeno muori combattendo". Fu una delle pochissime volte in cui lo vidi ridere, dopo la strage di Capaci che era avvenuta poche settimane prima. Borsellino, affrontato lo shock iniziale, era strenuamente impegnato a trovare qualsiasi traccia che potesse offrire uno spunto per capire chi avesse ucciso Falcone. 

Lo sentii per l’ultima volta il 29 giugno. Lo chiamai per fargli gli auguri, come sempre per San Pietro e Paolo, e fu una telefonata molto breve. Quel giorno lo trovai, contrariamente al solito, preoccupato, direi turbato. Mi ringraziò, ma il tono che percepii era grave. Capii che era molto impegnato in qualcosa che lo assorbiva, la testa era altrove. 

Non ci sentimmo più». 

Lei pensa che la strage Borsellino sia stata, come dire, la logica conseguenza dell’eccidio di Capaci? Sullo stesso filone criminale? O ritiene che dietro via D’Amelio ci sia altro, anche alla luce degli episodi di depistaggio emersi negli anni? 

«Io non ho indagato né sulla strage di Capaci né su via D’Amelio. Le indagini le ha condotte Caltanissetta, ovviamente. Intendiamoci: Falcone e Borsellino erano due causali viventi. Fu chiaro a tutti quanti noi che, ucciso Falcone, Cosa nostra avrebbe colpito Borsellino. Lui stesso, com’è noto, ne era consapevole». 

Ritiene che lo Stato abbia fatto abbastanza per proteggerlo? 

«I fatti dicono chiaramente di no. Lo Stato ha rafforzato in qualche modo la sua protezione. Ma certe "sviste", come quella che lasciò priva di protezione via D’Amelio, notoriamente frequentata dal giudice per andare a trovare la madre, sono sinceramente a tutt’oggi incomprensibili». 

È stata solo mafia? 

«Sicuramente è stata mafia. E questo lo dicono anche le sentenze. Le stesse però non escludono che vi sia stato un possibile coinvolgimento esterno. Alcuni collaboratori di giustizia hanno riportato alcune affermazioni di Riina che lasciano pensare quanto meno a una conoscenza da parte di soggetti "altri". Le indagini fatte dai colleghi di Caltanissetta in questi anni si sono mosse in più direzioni. Peraltro la mafia uccide raramente solo per vendetta. 

Spesso lo fa anche in via preventiva e forse non nel suo esclusivo interesse. Una cosa però su Borsellino la voglio aggiungere, in apparenza banale ma non per me: se fosse vivo, oggi sarebbe in pensione. Ma sono convinto che anche da pensionato avrebbe continuato a farci sentire il suo sostegno, mi e ci avrebbe dato ottimi consigli. Ci mancano». 

Procuratore, veniamo a oggi. 

Qual è lo stato di salute, se così si può dire, della lotta a Cosa nostra? 

«Tutti i più grandi capi storici sono stati arrestati, condannati e alcuni sono anche deceduti. Alcuni boss sono stati scarcerati avendo espiato le loro pene. La qualità delle indagini si è indubbiamente affinata. Registriamo tuttavia una presenza ancora capillare di Cosa nostra sul territorio. Insomma, c’è ancora da lottare. Il percorso è lungo. E non ci stanchiamo mai di dirlo: non può essere delegato solo alla magistratura e alle forze dell’ordine. Se posso esprimere un auspicio, vorrei che quella reazione sociale alla quale assistemmo subito dopo le stragi fosse ancora viva o quanto meno che venisse ridestata. Possibilmente senza altre stragi o altre vittime eccellenti». 

E invece? Ha la sensazione che non se ne parli più? 

«Siamo schietti. La gente si è stancata dopo un anno e mezzo di sentir parlare sempre di Covid, che pure è una tragedia che ha condizionato le vite di tutti, figuriamoci se non si è stancata di sentir parlare di mafia e antimafia. Il livello di tensione che c’era allora non poteva reggere in eterno. L’importante però è che ci sia la consapevolezza della persistenza del fenomeno, anche questo capace di danneggiare tutti e provocare vittime». 

Difficile, camminando per le vie di Palermo, e non solo, non constatare la mole di ricchezza e di liquidità in alcuni casi sospetta. State seguendo la "via del denaro", per dirla con Falcone, e dove porta? Esistono i tesori sommersi di Cosa nostra? 

«Io non so se ci siano tesori sommersi. È certamente plausibile che beni e denaro siano sfuggiti alle indagini patrimoniali che sono state svolte negli ultimi decenni e che hanno portato a sequestri e confische per cifre enormi. Indagini, arresti e sequestri di beni si susseguono con rinnovata frequenza. 

L’obiettivo del riutilizzo sociale dei beni confiscati non sempre è stato raggiunto. Di sicuro, c’è un continuo controllo da parte di Cosa nostra non solo di quasi tutte le attività criminali anche al livello più basso, ma anche di parecchie attività lecite. 

Assistiamo a una penetrazione di Cosa nostra nell’economia che va dalla riscossione del pizzo all’inserimento in attività economiche gestite da terze persone, attraverso l’usura o l’estorsione, fino alla gestione diretta di un’impresa economica "pulita". La seconda e la terza di queste tipologie prendono corpograzie alla connivenza di soggetti esterni che si offrono come prestanome. Il flusso ingente di denaro si spiega anche così. Oggi non c’è inchiesta che non tocchi l’intestazione fittizia di beni o la gestione di un punto gioco online. Aggiungiamoci il ritorno massiccio di Cosa nostra nella gestione del commercio degli stupefacenti, che è in crescita perché aumenta la domanda, e il quadro è pressoché completo». 

Mafia e politica, capitolo ancora aperto in Sicilia. E siamo a pochi mesi da una lunga campagna elettorale. Quali rischi intravede? 

«La prima cosa da evitare sono le generalizzazioni. I rapporti non sono tra mafia e politica. Ma tra alcuni mafiosi e alcuni politici. 

Non c’è dubbio che i singoli politici oggi siano molto più attenti di prima alle persone con cui hanno a che fare. E poi sono finiti i grandi finanziamenti pubblici del secolo scorso che facevano gola alle cosche. I mafiosi oggi sono interessati ad avere un buon rapporto di mediazione con gli amministratori: più utile avere a che fare con un funzionario pubblico anche di basso livello piuttosto che con il politico di peso. Preferiscono trattare con chi gestisce l’appalto per la manutenzione delle scuole o per la raccolta dei rifiuti o per le mense scolastiche, per essere chiari. E qui si creano forme di connessione, di interazione, la mafia diventa corruzione. Non c’è la caccia al grande politico, ecco. 

Tuttavia negli ultimi anni abbiamo scoperto svariati casi di compromissione a vari livelli di politici con mafiosi, per motivi elettorali o per altri fini illeciti». 

Infatti sono ancora tanti gli insospettabili che finiscono nelle maglie delle vostre indagini. Un segnale per niente incoraggiante in vista delle ingenti risorse che arriveranno anche in Sicilia con il Recovery. Quanto è concreto l’allarme infiltrazioni lanciato dalla ministra dell’Interno Lamorgese nella sua ultima visita a Palermo? 

«Il rischio è fondato per i motivi che dicevo prima». 

Esistono gli strumenti normativi per far fronte a quei rischi? 

«Esistono. E c’è anche una sufficiente specializzazione delle forze dell’ordine per fronteggiarli. Abbiamo banche dati formidabili, delle quali ci avvaliamo per le nostre indagini. 

Tutto è perfettibile, ma il quadro normativo in termini di controllo, anche preventivo, esiste. Il problema è avere le risorse sufficienti per prevenire le infiltrazioni e svolgere le indagini necessarie». 

Cosa pensa della riforma della giustizia appena varata dal governo tra mille ostacoli? 

«Le rispondo subito che non è mia abitudine commentare l’attività del governo o del Parlamento, a maggior ragione avendo letto solo anticipazioni giornalistiche inevitabilmente sommarie. Occorrerà leggere bene il testo. Una cosa è certa: riforme a costo zero nell’ambito della giustizia non se ne possono fare. E se sono state fatte in passato, non hanno mai dato grandi risultati. Occorrono investimenti, anche lì. Detto questo, sembra che si stia andando verso un positivo potenziamento degli organici della magistratura e del personale amministrativo. Spero che si vada in modo deciso verso la digitalizzazione e l’informatizzazione dell’attività giudiziaria, già sperimentata con successo sotto l’emergenza Covid». 

Parecchie polemiche ha suscitato nei mesi scorsi anche la scarcerazione del collaboratore Brusca. Quanto è ancora importante lo strumento dei collaboratori? La legge è da aggiornare? 

«Premesso che Brusca era detenuto dal 1996, comprendo perfettamente che su di lui si sia concentrata l’attenzione generale perché è l’uomo che ha schiacciato il telecomando a Capaci e che ha impartito l’ordine di eliminare il figlio dell’altro collaboratore di giustizia Di Matteo. Vorrei ricordare però che anche lui venne arrestato grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Quindi ritengo che la legislazione su di loro sia ineliminabile, irrinunciabile. La volle Falcone, e Borsellino la applicò. Peraltro è stata già riformata. Tutto è migliorabile sotto l’aspetto gestionale. Ma per le caratteristiche di Cosa nostra, la legislazione in materia è fondamentale. Se nei confronti della ’ndrangheta non si sono raggiunti gli stessi risultati, sia chiaro, è proprio perché i collaboratori sono in numero irrisorio rispetto a quelli sui quali abbiamo potuto contare noi». 

La cattura di Matteo Messina Denaro è stata ciclicamente considerata a un passo. Ma di lui dal 1993 non si hanno notizie. Cosa può dire della caccia al capo di Cosa nostra ancora in circolazione? 

«Posso rispondere in maniera un tantino sgarbata?». 

Prego. 

«Di questo non parlo. I latitanti o si prendono o non si prendono. Della cattura non si parla, se non quando è avvenuta». 

La consideriamo una risposta di buon auspicio. 

La Repubblica Palermo, 18/7/2021

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