mercoledì, giugno 02, 2021

L’intervista. Fabio Carapezza: "Così la Vucciria sedusse Guttuso"

La Vucciria di Renato Guttuso

di PAOLA NICITA
Alcune opere d’arte sono detentrici di un segreto che non è legato alla struttura formale, all’essere icona dello spirito di quel tempo, o del condurre con sé un bagaglio di suggestioni: è questo il caso della Vucciria dipinta da Renato Guttuso, dove il dato estetico e quello semantico appaiono ad un tratto indipendenti dall’idea generatrice, prescindono e superano la stessa opera, scivolando in un’aura invisibile che arriva dritta alla testa, o al cuore, o simultaneamente ad entrambi. Poche opere sono riuscite a rappresentare con tale forza donne, uomini, luoghi: la Vucciria è la costruzione di una architettura della visione che, in una unica immagine, ci dice, per sempre, cosa è Palermo, i palermitani, il colore della luce e quello del buio, la gioia mortifera della fisicità, l’ineffabilità della storia, l’abbanniata della vita.

Testimone prezioso della Vucciria, come dell’intera opera di Guttuso, è Fabio Carapezza Guttuso, figlio adottivo del pittore e responsabile degli archivi del maestro bagherese, che in occasione del nuovo allestimento per la ricollocazione del quadro nella sala delle Armi dello Steri riavvolge i ricordi e racconta quelle formidabili giornate che condussero alla realizzazione del grande dipinto.

La Vucciria è una avventura d’eccezione nel percorso di Renato Guttuso: da dove inizia?

«Inizierei dal racconto del mercato, che è stato un luogo familiare per Guttuso quando inizia a frequentare la città per gli studi liceali. Ogni giorno, per andare a scuola, Renato sedeva sui carretti che partivano da Bagheria carichi di merci, diretti alla Vucciria. Lo lasciavano all’angolo di via Roma, lui attraversava il mercato a piedi, ebbro di profumi. Ma poteva permettersi solo un panino con le panelle, che mangiava inalando effluvi dei polpi bolliti venduti in piazza Caracciolo, della frutta, della carne, del pane. Tutte queste memorie Renato le ha trattenute per un tempo enorme, fino a quando nel 1974 decide di tornare a Palermo e comprare casa, e acquista Palazzo Galati. Io andavo a trovarlo ogni mattina e inziava il nostro giro: una volta all’Abatellis, la volta seguente alla scoperta del Serpotta, i nostri itinerari erano sempre alla ricerca dell’arte, della bellezza. Ma tutte queste visite culturali avevavano un solo e unico epilogo: la sosta alla Vucciria».

Una sosta costruita come un rito, ineludibile. E qui cosa accadeva?

«Sì, un vero e proprio rito, con i suoi codici: intanto Renato voleva arrivare alla Vucciria solamente scendendo le scale che da via Roma immettono al mercato. Poi ci affidavamo ad un signore che è anche ritratto nel dipinto, Isidoro.

Ora, Isidoro era un vero e proprio personaggio, era stato un contrabbandiere e come tale una volta era stato scoperto e aveva scontato la sua pena in galera. Ma il fatto che può apparire curioso è che Isidoro venne indicato a Guttuso dal giudice Terranova, che spiegò: " Ha scontato la sua pena, è un uomo libero, è perfetto per farti da guida alla Vucciria". Così, ogni giorno, Isidoro ci attendeva alle scalette e insieme andavamo in giro per il mercato: era abilissimo, distingueva subito le merci migliori, e una volta ci salvò da un venditore di fichidindia che sotto un’apparenza tranquilla era, come ci spiegò lui, " pericoloso uomo di coltello". Ci evitò molti guai».

Dopo tante giornate tra i banchi del mercato, Guttuso decide di dipingere la Vucciria, e inziano i preparativi. In cosa consistevano?

«In una campagna fotografica. Era l’estate del 1974, un caldo torrido, ed eccoci immersi in un’afa micidiale a girare di bancarella in bancarella, al seguito di Guttuso, con al collo una vecchissima Nikon con pellicola in bianco e nero che, fotogramma dopo fotogramma, sceglieva quello che gli interessava. Era il taglio, ad interessarlo. Non era un fotografo in senso stretto, ma fermava le inquadrature, lo sguardo. I pezzi di marmo con sopra le olive, i pesci, gli piacevano moltissimo. Questa massa di fotografie partì con Guttuso alla volta di Velate, lo studio milanese in cui Renato lavorò all’opera. Aveva bisogno di mettere una distanza, anche fisica, con quel mondo, con quel luogo, a cui voleva dedicarsi totalmente».

Cesare Brandi ha scritto che la Vucciria "non è folclore, ma consonanza segreta che lega al mondo", per sottolineare l’universalità di questa pittura.

Guttuso era consapevole che sarebbe stata un’opera speciale?

«La modalità fu simile a quella che Renato scelse di adoperare per opere molto importanti, come "I funerali di Togliatti" o "Bosco d’amore". Direi che la struttura era quella dei trionfi, c’è una moltitudine, e ciascuna parte ha la sua forza. Con tutto quel materiale, occorreva togliere più che aggiungere. Una cosa era stata da subito chiara: voleva che il suo studio si trasformasse in set, era una produzione cinematografica per un quadro. Così iniziarono i viaggi delle merci dalla Vucciria allo studio di Milano, ogni giorno con un carico diverso».

Chi si occupava delle spedizioni?

« Isidoro. Ogni giorno arrivava a Punta Raisi con il carico merci prese alla Vucciria, che arrivavavo a Malpensa e poi venivano portate allo studio. Renato attendeva impaziente e poi si metteva a dipingere la grande tela di tre metri per tre, mentre lo studio si riempiva di trionfi di broccoli, cataste di limoni, uova, frutta, pesce spada.

Era una pittura piuttosto rapida, per non far deteriorare la mercanzia che altrimenti cambiava colore. Poi tutto veniva consegnato alla cuoca, che guardava estrefatta quella quantità di cibo con quei colori: lei, che era di Varese, chiamava le verdure "erbette", facendo ridere Renato. E poi c’erano grandi cene con gli amici chiamati a condividere i profumi della Vucciria. L’unico ad essere preso in loco fu il quarto di bue, che non avrebbe potuto sostenere il viaggio senza alterarsi.

La preparazione del dipinto fu lunga, la realizzazione velocissima, specie per una pittura così grande: in un solo mese la Vucciria era finita. E Renato era davvero contento. Si divertiva a chiedere quanti personaggi ci fossero nel dipinto, e tutti sbagliavano».

Questo è un dipinto iconico, considerato la quintessenza della sicilianità...

«In una prima stesura dell’opera, Guttuso ha dipinto le persone che uscivano dalle cassette di frutta, come dei sudari. Poi ha iniziato un grande bozzetto a matita, più simile a quello definitivo. Nella mia analisi ho tenuto in conto che Guttuso ammirasse Piero della Francesca, e che da poco fosse morto il suo amico Picasso. Nella Vucciria c’è l’architettura dipinta, cassette di legno posizionate come vòlte, macellai e pescivendoli sovrapponibili a figure antiche di guardiani del Tempio, c’è il mercato come fatto sociale, le voci dei commercianti, insomma, c’è tutto».

Questo nuovo allestimento della Vucciria allo Steri cosa comporterà?

«È un fatto importantissimo: con questo quadro, che definirei sociale e totale, il popolo rientra prepotente, irrompe, come avvenne nella Bastiglia. La Vucciria dentro lo Steri, c’è un unico filo che unisce questi due luoghi, ed è molto bello».

La Repubblica Palermo, 2 giugno 2021

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