mercoledì, giugno 02, 2021

Il primo giorno della Repubblica

Milano, 1946. Dopo il referendum piazza G. D'Annunzio
diventa piazza della Repubblica

di
EZIO MAURO
2 giugno 1946-2021. CRONACA DI UNA RIVOLUZIONE DEMOCRATICA: Cosa accadde quel 2 giugno del 1946, esattamente 75 anni fa. Quando gli italiani si svegliarono per l’ultima volta in un Regno
All’alba della Repubblica, il 2 giugno 1946, il sole si era alzato su Roma alle 5,37, con la temperatura di 13 gradi che nel corso della giornata sarebbero diventati 28, e l’umidità del 60 per cento. A quell’ora il vecchio re Vittorio Emanuele III si svegliava ogni mattina per alzarsi alle 6, con un’abitudine militare che sorprese lo Zar di tutte le Russie durante il soggiorno a Racconigi nella visita di Stato, tanto da comunicare il suo stupore in una lettera alla zarina madre: «Qui vanno tutti a dormire alle 23, perché il re si alza prestissimo». Ma ormai il Re era diventato il conte di Pollenzo, in esilio in Egitto dopo l’abdicazione, e l’ultima fotografia lo riprendeva in canoa con l’ex regina Elena, un casco coloniale in testa e un binocolo al collo, come un turista sfaccendato e lontano. Il nuovo sovrano Umberto II, devoto alla Chiesa a differenza del padre, cominciò la sua giornata con la Santa Messa, inginocchiato non nella cappella Paolina, dove erano state celebrate le sue nozze con Maria José, ma davanti all’altare dell’Annunziata nel palazzo del Quirinale, vicino al suo appartamento privato. Quando il celebrante invocò la benedizione di rito su Casa Savoia tutti chinarono il capo facendo il segno della croce: ma nessuno affidò pubblicamente all’Altissimo la cura di quel giorno speciale, in cui l’Italia era chiamata a scegliere il suo destino tra la repubblica e la monarchia.

La vigilia del referendum è attraversata da voci incontrollabili che parlano di intrighi monarchici, di manovre delle sinistre. La psicosi dura da giorni, annunciata dal macabro mistero della salma di Mussolini trafugata la notte del 22 aprile al cimitero monumentale di Milano. Una settimana prima del voto un rapporto «strettamente confidenziale » dell’Oss, il servizio segreto americano, «fonte Jk1», parla in modo esplicito di «colpo di Stato» comunista agli ordini di Longo, Moscatelli, Barontini e Grieco per prendere il potere arrestando «membri della famiglia reale, gli ex gerarchi fascisti, i principali proprietari terrieri e i capi delle industrie». I leader dei partiti di sinistra, invece, guardano al Quirinale, temendo un colpo di mano dell’entourage reale, dopo le sorprese delle ultime settimane. Violando la tregua istituzionale che secondo le intese doveva garantire il più corretto svolgimento del referendum, infatti, il 9 maggio Vittorio Emanuele III era uscito dal silenzio di Villa Maria Pia a Posillipo per abdicare in favore del figlio, che per gelosia e per diffidenza non aveva mai voluto preparare al mestiere di re. Una scelta che Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia nel governo De Gasperi, giudicò «l’ultima fellonia di una casa regnante di fedifraghi», decisa per risollevare le sorti della monarchia in declino dopo la connivenza del sovrano con il fascismo, le leggi razziali, la tragedia della guerra, la vergognosa fuga a Brindisi: tentando in extremis di salvare la dinastia minacciata dal voto popolare.

Il nuovo re, privato della formula rituale che assegnava la corona «per grazia di Dio e volontà della nazione », giura «di osservare lealmente le leggi fondamentali dello Stato e le libere determinazioni dell’imminente suffragio». Ma intanto parte subito per mostrarsi alla folla in Piemonte, in Veneto, in Sardegna, a Napoli, a Milano, in Sicilia, in Calabria, in un vero e proprio circuito propagandistico tra santuari, tombe, palazzi, ricevimenti e saluti militari che rivela il sostegno del Sud alla monarchia e la freddezza del Nord, ma soprattutto mette in conflitto il doppio ruolo di Umberto II come Capo dello Stato e parte in causa nella battaglia referendaria. Più defilata la regina Maria Josè, che cerca di apparire in manifestazioni di beneficienza in scuole e ospedali, per poi infilare la scheda bianca nell’urna del referendum e votare socialista per la Costituente, secondo la confidenza compiaciuta di Giuseppe Saragat, convinto che la preferenza della sovrana fosse andata proprio a lui.

Nei pettegolezzi del Quirinale si racconta che abbia votato scheda bianca anche il re, fotografato mentre consegna scheda e matita al presidente del seggio di via Lovanio, vicino a Villa Savoia, che gli aveva fatto saltare la coda. Come se avesse passato una notte agitata, il vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni si presenta al voto alle otto del mattino alla sezione 350 di Tor di Quinto, poi si chiude in casa per tutto il giorno, leggendo Le zéro et l’infini di Koestler. Il giorno prima, aveva chiesto a De Gasperi quale sarebbe stata la sua scelta nell’urna, senza avere risposta («Il voto è segreto»), anche se più tardi la figlia Maria Romana rivelerà che il Capo del governo aveva votato per la Repubblica. L’ingegner Giuseppe Romita, ministro socialista dell’Interno, si barrica invece al Viminale per tre settimane, teme che vogliano rapirlo, isola il suo ufficio sbarrando corridoi e chiudendo saloni, si fa portare le camicie dalla moglie, pranza e cena in ufficio col comandante dei carabinieri Brunetti e con il Capo della polizia Ferrari, che a tavola gli confessano la loro fede monarchica.

In un Paese fortemente cristiano, con sei milioni di iscritti all’Azione cattolica, la Chiesa ufficialmente sceglie l’astensione, anche se nei paesi del Sud il clero sostiene la monarchia, agitando gli spettri del caos per paura dei comunisti. Le sacre indiscrezioni che filtrano dal Vaticano parlano di un Papa vicino ad Umberto, con un pro-segretario di Stato come Montini più aperto verso la Repubblica. In questi spifferi si infilano naturalmente i servizi, che in un rapporto classificato come «segreto » certificano che «Pio XII ha espresso la sua aperta simpatia per i Savoia, dichiarando che appoggerà il mantenimento della monarchia in Italia». Ma nei corridoi del governo Mario Scelba, ministro delle Poste, racconta a tutti i democristiani (e anche a Togliatti) che il fondatore del partito Popolare don Luigi Sturzo gli ha confidato in una lettera «Io sono per la repubblica». C’è anche un sondaggio, organizzato per la prima volta dalla "Doxa". Ma nei palazzi del potere gira ancora la profezia di Vittorio Emanuele III, come una maledizione: «Una forma di governo repubblicana non è adatta al popolo italiano, né per temperamento né storicamente. In una Repubblica ogni italiano insisterebbe per diventare presidente e il risultato sarebbe il caos. Gli unici che ne trarrebbero vantaggio sarebbero i comunisti». Anche se da un rapporto del Foreign Office arriva un giudizio controcorrente: «Un po’ di Repubblica e un po’ di comunismo farebbero molto bene agli italiani».

Si arriva così al giorno del referendum, con una decisiva innovazione democratica, appena sperimentata nelle elezioni amministrative di marzo: il voto delle donne, che conquistano il suffragio compiendo una battaglia cominciata a metà dell’Ottocento. La risposta popolare nelle urne conferma la piena coscienza di questo diritto, con le donne che votano all’89 per cento, in un’affluenza complessiva altissima, 89,1. Il primo scrutinio è per l’urna della Costituente, dove la Dc è primo partito con il 35 per cento dei voti mentre i due partiti di sinistra col Patto d’unità d’azione arrivano al 39,6, con i socialisti che superano il Pci, il Partito d’Azione che crolla all’1,45, e l’Uomo Qualunque sale al 5,3 per cento. Poi comincia lo spoglio del voto referendario, sotto il presagio malinconico ma esatto di Umberto II, confidato nelle ultime ore al ministro della Real Casa, Falcone Lucifero: «La Repubblica si può reggere col 51 per cento dei voti, la monarchia no». In realtà dai primi dati balza in testa la scelta monarchica, perché le zone scrutinate sono quelle del Sud, e nell’ansia si gonfia la leggenda che Romita abbia nel suo cassetto un milione di voti prefabbricati e pronti. È una sciocchezza tecnicamente impossibile, ma basta a infiammare l’attesa fino al 5 giugno, quando alle tre del mattino una telefonata dal Viminale avverte Nenni che il Nord ha ribaltato gli esiti, la corona è sconfitta, l’Italia ha scelto la Repubblica.

È ancora notte quando Lucifero informa il re, in un incontro a due, commossi davanti alla sconfitta. A metà mattina De Gasperi al Quirinale concorda le procedure per la partenza del sovrano verso l’esilio, e gli comunica che lo accompagnerà a Ciampino. Il re risponde che ha deciso di far partire la regina e i figli per Napoli, dove l’incrociatore "Duca degli Abruzzi" li attende per portarli in Portogallo.

Tutto è definito: nel pomeriggio Romita legge i risultati, con 12.182.000 voti per la Repubblica, 10.362.000 per la monarchia.

La sera Umberto riunisce la "Corte Nobile" a tavola, per l’ultima cena al Quirinale. Ma venerdì 7, mentre Umberto in visita ormai privata si congeda da Pio XII che saluta i suoi «giorni amarissimi», i monarchici sollevano un’eccezione sui risultati, sostenendo che la legge prevede la maggioranza dei votanti e non solo dei voti validi. Tutto torna in alto mare, la Cassazione non proclama l’esito del referendum, in attesa di esaminare «contestazioni, proteste e reclami », e i fedelissimi convincono Umberto a non partire fino alla pronuncia definitiva. Sono sei giorni di passione, con il Consiglio dei ministri che siede in permanenza, anche fino alle 3 di notte, e De Gasperi che va e viene dal palazzo del governo al Quirinale, dove ha uno scontro con Falcone Lucifero, alzando la voce: «A questo punto, domattina verrà lei a trovare me a Regina Coeli, o verrò io a trovare lei».

La crisi sembra precipitare quando i bassi di Napoli insorgono contro la Repubblica inneggiando a Masaniello, con morti, tram rovesciati, barricate, e un vero e proprio assalto alla sede del partito comunista. Nel vuoto istituzionale il governo fa la mossa finale decidendo che nel regime transitorio «le funzioni di Capo dello Stato spettano al Presidente del Consiglio in carica ». Il re ha dormito fuori palazzo, in via Verona, a casa dell’ingegner Lignana. Qui con Lucifero esamina la possibilità di un’ultima prova di forza, poi nel timore della guerra civile desiste. Partirà, per evitare scontri e conflitti, ma contestando la legittimità del passaggio di poteri. Saluta i collaboratori, passa in rassegna i corazzieri, cammina per l’ultima volta nei giardini, poi un corteo di cinque auto lo accompagna a Ciampino dove rifiuta di incontrare i due ministri che lo attendono sulla pista. Dietro le spalle si è lasciato l’ultimo proclama che denuncia «il gesto rivoluzionario, unilaterale e arbitrario del governo» e annuncia il «sacrificio » compiuto «nel supremo interesse della patria». «Un periodo che non fu senza dignità — replica De Gasperi — si conclude con una pagina indegna». In cima alla scaletta, prima di entrare nel Savoia Marchetti 95 l’ex re, ormai conte di Sarre, si volta sorridendo nel commiato, col cappello floscio nella mano destra.

In quel momento dalla torre del Quirinale scende il tricolore con lo stemma dei Savoia. Calma assoluta in tutto il Paese, scrive nel suo diario Nenni. «Ci sarebbe da arguirne che si può perfettamente fare a meno del re e del Capo dello Stato. Però l’Italia è un ben curioso Paese».

La Repubblica, 2 giugno 2021

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