sabato, giugno 26, 2021

Goffredo Fofi: “I miei anni a Palermo sono stati un’università”


di MARIO DI CARO

A Cortile Cascino non c’era acqua corrente per lavarsi ma c’era un forte senso della comunità. «C’era una fontanella per mille persone e gli uomini per fare i loro bisogni andavano lungo la ferrovia: i viaggiatori pietosi del Palermo-Trapani che ci vedevano accovacciati ci lanciavano i giornali». 

C’era un pezzo di Palermo che negli anni Sessanta viveva una realtà altra, lontana da ogni narrazione della città. Goffredo Fofi, critico cinematografico, fondatore di riviste, oggi splendido ottantenne e allora giovane operatore sociale e collaboratore di Danilo Dolci, è un testimone di quella fetta di Palermo poverissima. Un’esperienza, quella palermitana, che definisce come “la sua Università” e che adesso racconta a Franco Maresco nel film “Goffredo felicissimo”: il documentario diretto da Franco Maresco e scritto dal regista con Claudia Uzzo, prodotto da Daniele di Gennaro e Salvatore Pecoraro per Minimum Fax Media, si gira da un paio di settimane in città. 

Che Palermo era quella di Cortile Cascino? 

«C’erano i bambini che oggi non vedi più: allora i bambini sciamavano e li vedevi ovunque. Io allora lavoravo coi bambini, era come se mi conoscessero tutti, andavo alla Cala e sbucavano bambini che mi seguivano e mi venivano incontro, ero il pifferaio di Hammelin. Questo era l’aspetto prensile della città, a me mi hanno catturato i bambini, mi hanno preso. Cortile Cascino è stata un esperienza fondamentale c’erano mille persone che vivevano con la fogna scoperta ma era una comunità, e quando avevo dei guai fuori c’erano un altro pezzo di umanità nell’alta borghesia: Topazia Alliata di Villafranca, le telefonavi dicendole che c’era un bambino moribondo e lei ti trovava un medico. C’era “L’Ora“, un giornale straordinario, se succedeva qualcosa di grave nel Cortile ci si rivolgeva a loro. Una volta la polizia voleva cacciare donna Maruzza la “mustazzuta” che vendeva caramelle bisunte e che era un punto di riferimento per noi: quando il proprietario di questo miserabile basso ove teneva il suo banchetto voleva sfrattarla andai a “L’Ora” e mandarono Nicola Scafidi a fare le fotografe con un cronista, e si bloccò tutto. Donna Maruzza rimase lì e morì lì. C’era una società di cui ti sentivi parte. Sentirmi un pezzo di quelle mille persone di cortile Cascino, sentirmi totalmente dentro questo comunità è stata una esperienza straordinaria che mi ripagava di piccoli guai e anche della fame: di giorno mangiavo pane e panelle e la sera, quando mi invitava la gente del quartiere, pasta squarata, solo acqua e sale senza un filo d’olio». 

Erano gli anni di Danilo Dolci a Partinico... 

«Danilo era diventato un’autorità e venivano i personaggi più strani a incontrarlo. Lì conobbi anche alcuni banditi della banda Giuliano che dopo essere stati scarcerati cercavano un lavoro. Mi raccontarono delle torture che avevano subito: gli mettevano gli elettrodi nei testicoli e un imbuto di acqua e sale in bocca». 

Il rapporto con Palermo si rinsalda nei giorni dolorosi del dopo-stragi del 1992: fu una sorta di filo rosso tra momenti drammatici? 

«Maresco mi ha fatto leggere davanti alla cinepresa la lettera che scrissi a Vincenzo Consolo nel ’90, prima di Capaci , e che è stata pubblicata nella biografia che apre il Meridiano: Vincenzo continuava a scrivere articoli “ basta Milano” e io gli scrissi una lunga lettera dicendogli “Sciascia è morto, sei tu che devi pigliare il suo posto, facciamo assieme una rivistina e andiamo a vivere a Palermo”. Lui non se la sentì ma io andavo e venivo. Negli anni Ottanta la mia rivista “Linea d’ombra” fece un numero tutto sulla cultura palermitana: avevo trovato i giovani Alajmo, i giovani Giambrone, i giovani Benfante. Più avanti assieme a Matteo Bavera, erano già gli anni del teatro Garibaldi, ci inventammo “Nino domani a Palermo”». 

E la “scoperta” di Franco Maresco, che oggi le dedica il suo nuovo film? 

«Come tutti ho scoperto Franco Maresco guardando la televisione, ovvero “Cinicotv”, sia lode a Enrico Ghezzi. 

Io ero molto amico di Carmelo Bene e quando andavo a casa sua voleva spesso che mi fermassi a dormire: ci mettevano sul suo lettone, lui armeggiava col telecomando, arrivava “Cinico tv” e lui era estasiato. 

Diceva: “Questi sono gli ultimi grandi artisti del barocco”. 

C’è una scena del “Gattoparve” al cimitero dei Cappuccini, con le immagini delle mummie e il valzer del “Gattopardo”, che è come i trionfi della morte della pittura spagnola». 

A proposito di Maresco, “Belluscone” ci ha sbattuto in faccia la realtà che in alcune borgate la cultura antimafia non è mai arrivata…. 

«È una questione antropologica, la cultura del sottoproletariato è fragile, basata sulla necessità non sulle idee. Le idee vengono dopo e se ci sono riguardano il sacro, Santa Rosalia, il rapporto con la vita, con la morte con la malattia. Questa cosa l’ho capita meglio a Napoli con Achille Lauro, l’antenato di Berlusconi e dei populisti che sapeva colpire l’immaginazione mentre la sinistra non ci riusciva. Avendo lavorato a Palermo e a Napoli credo che se un ceto sociale si butta a destra la colpa è della sinistra. Perché non sa capirlo, non sa interpretarlo e non sa rispettarlo». 


La repubblica Palermo, 25/6/2021

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