sabato, gennaio 16, 2021

Un viaggio nei ricordi della Valle del Belice: le sue macerie, i suoi volti, la voglia di tornare a vivere

Poggioreale (ph. Mike Palazzotto)

E
’ affiorata giorni fa per caso, parlando con Valentina dei paesi terremotati del Belì
ce. Riaffiorava nella mia mente, raccontandola, la sensazione di paura ma al contempo di piacevolezza nel provarla, che sentivo quando, io bambina, attraversavo in auto le strade di quei paesi distrutti, vedendone le carcasse, evocative della vita che cera stata dentro. 

Non so se per necessità, perché quella era la sola strada da farsi, o proprio per assaporare il brivido che si provava transitando da luoghi ormai abbandonati e fantasmatici, ci passavamo qualche volta in auto, di sera, alla luce di fiochi lampioni superstiti, con mio padre, unico patentato, alla guida e la famiglia intera. Passaggi furtivi durante i quali la paura era compensata e anzi acuiva il piacere di sentirsi protetti da quellinvolucro metallico su ruote in movimento, e dal suo rassicurante contenuto di affetti. 

Provavo lo stessissimo piacere già anni prima del terremoto, immaginando, solo immaginando, che con tutta la famiglia stavo chiusa nel bagnetto della casa che avevamo allora in affitto a Corleone, in vicolo Tardi, da cui ci trasferimmo quando avevo circa sei anni. I miei ricordi nella vecchia casa sono quindi antecedenti a quelletà. E da così piccola mi crogiolavo in un pensiero protettivo: immaginavo che io e loro eravamo tutti là, chiusi in quel bagnetto vecchio stile, col bidet metallico smaltato bianco, amovibile dal suo supporto in ferro, e la finestrella che confinava col giardinetto della signorina Bottalla, con la quale da là ogni tanto comunicavamo. Noi tre bambini per di più immersi nella piccola vasca da bagno, in acqua calda, mio padre e mia madre pure dentro, e la porta chiusa col ferretto. E fuori dalla porta mostri immaginari che volentieri ci avrebbero mangiati, attentavano a noi, spingevano, prendevano a spallate la piccola porta che miracolosamente non si apriva, mantenendoci salvi, incolumi, assieme.

 

Sono tornata negli anni, da ragazza, nei paesi del terremoto, con amici, stavolta di giorno, a camminarci dentro, a guardare muri ancora arrancanti colorati di verdino o azzurro azuolo. Fino al giorno che, percorrendo tratti ricoperti di un pietrisco vitreo e scintillante (che poi mi dissero era gesso, io ne ho un frammento) non trovammo più il vecchio paese rotto ma una collina, una collina intera ricoperta letteralmente di cemento.

Lopera in sé avrebbe voluto essere evocativa anchessa: una cassaforma che conteneva i resti delle case, spalati dentro, e che li ricopriva come un sudario, solcata da un labirinto inquietante  dai muri alti quanto me, a significare il dedalo delle stradine di un tempo. Io avrei lasciato quelle macerie là doverano, al massimo disseminandole di macchie di geranio, solo quelle.

Il cretto di Burri (ph. Sergio Grimaldi)

Non ho mai fatto pace con quel Cretto e negli anni mi ha fatto piacere vedere che, con la forza delle loro fragilissime radici, erbe e fiori spontanei l
avevano attaccato, che sciaccazze e screpolature andavano solcando lenorme e rigida colata. Ho sperato che, una volta tanto, linefficienza della politica siciliana servisse a rimandarne fino allinattuazione lauspicato (da altri) restauro. E che le pianticelle e il tempo e le intemperie lentamente sgretolassero quel moloch fino alla sua estinzione.

 

Ho foto di quei paesi, scattate nei decenni. 

Quelle fra la fine dei 70 e gli inizi degli 80 fatte da Sergio, compagno di rivisitazioni, che lui stesso sviluppava e stampava in bianco e nero. Immortalano sculture avveniristiche a Gibellina, in un paesaggio ancora fatto solo di sterrato. In una, un vecchio con la coppola, solissimo, sedeva sui bordi cementizi che attorniavano una di quelle sculture che sembravano di un secolo a venire. Nel terrapieno su cui essa era impiantata qualcuno aveva messo a dimora dei cavoli, tentativo ostinato di non arrendersi allespropriazione di una civiltà, che scompariva sotto le botte del sisma, della mala politica come anche di quella buona e immaginifica.

 

Poi le foto e i filmati di unera pre-digitalizzata, anni 90, con Fufo che passeggia a metà fra lo sperduto e lincantato, in sistemi di piazze metafisiche, dechirichiane, che non prevedono un angolo che sia un angolo per un albero, impossibili a utilizzarsi in una Sicilia assolata, e forse e manco usabili come campetti di calcio, con pavimenti ricoperti di mattoni anziché derba.

E foto di un elefantiaco auditorium, o dellenorme palla di cemento di una chiesa madre, crollata da là a qualche anno.

 

Le ultime, inoltrati anni 2000, ritraggono nella nuova Poggioreale roboanti architetture, per me orrorifiche, già distrutte, vandalizzate, se mai utilizzate dopo la costruzione: la piazza racchiusa fra ali di colonnato simil classico; o una scultura fatta di pilastri che non reggono niente, con una statua di padre Pio poi messa al centro, a dar loro almeno funzione di cappidduzza.

Ho in mente poi le foto di un diroccato palazzo del Gattopardo in cui ci infilammo a nostro rischio, ritrovato anni dopo restaurato; o dellunica parete superstite della cattedrale di Santa Margherita, già bella in sé, che ritrovammo anni dopo come parete del Museo della Memoria, con le altre pareti fatte a vetri.

Terremotati (ph. Mike Palazzotto)
I
Non lontano, i resti del paese antico, per me fantastici pi
ù che fantasmatici, fra cui una volta, con Nino e Giuliano, trovammo ad aggirarsi un vecchio che non gli parve vero di avere un microscopico uditorio di ascoltatori interessati, e a noi non parve vero di avere un narratore, diretto testimone di quei tempi. Raccontò che, deportato nel capoluogo di regione, tornava a rivisitare i vecchi luoghi: qua lavorava il padre, là cera la zia, là qualcun altro aveva la sua attività, un tempo. Volle offrirci qualcosa in un bar del paese nuovo e anche un pacchetto di dolci da portare a casa. 

 

Ho foto di Salemi con solo labside della fu cattedrale ancora in piedi e restaurata, a fare da nicchia in uno spazio aperto, che sempre mi ha fatto pensare che lo stesso, e bellissimamente!, potrebbe essere fatto della chiesa di san Marco a Corleone, da tutti data per spacciata, da nessuno o solo da pochi calcolata, ancora là ad aspettare comitati o amministrazioni o singoli cittadini che non sanno darle la dignità che merita. 

 

Ho il ricordo di una volta che, imboscandosi Nino un po’ più addentro dalla strada per fare pipì, tornò dicendo che aveva scoperto per caso un monumento, restaurato ma da nessun cartello segnalato, che ci sembrò azteco: due lunghe palme come militi a guardia di una scalinata, al termine della quale resisteva la spianata della fu chiesa madre di Salaparuta.

Non lontano da là solo tracce di ruderi spianati dalle ruspe del post terremoto, fra cui volteggiava un pezzo di un manifesto con su raffigurato un personaggio che mi sembrò interessantemente strano: alto, magro, lungo cappotto scuro svolazzante, un cappello in testa. Frammento che presi e che ho a casa nella mia raccolta di cimeli, da decenni in attesa di sistemazione, di significazione, per scongiurare che, dopo di me, in due secondi qualcuno sbarazzi tutto in cassonetto. Mostrando il frammento ad altri, seppi poi che ritraeva lartista Beuys che là aveva lavorato,  e il cui fantasma cartaceo ancora saltellava là, spinto dal vento.

 

Poggioreale vecchio unassoluta apparizione. Un cancello in ferro, chiuso ma senza catene e catenacci, chiuso solo per invitarci ulteriormente ad aprirlo, messo allinizio di quello che fu il corso. Ai lati edifici ancora leggibili: il teatro coi suoi palchi, un palazzo nobiliare, la case, le scale, la piazza, i ciacati, e dentro solo pecore, in quel momento senza neanche pastore, a pascolare. Di là ho conservato un pezzo di tegola di terracotta, poggiato fra le mie piante di casa.

 

Veramente per caso, parlando con Valentina laltra sera, sono affiorati, oltre ai suoi, i miei racconti. Si parlava di un libro bellissimo, che affascinò me e che affascina ancora oggi lei, decenni dopo, I ministri dal cielo” di Lorenzo Barbera, che narra le lotte della gente di allora per potersi ricostruire unesistenza, la manifestazione a Roma, lingresso loro impedito a Montecitorio, in cui per legge si entra con cravatta. Sprovvisti, ne avevano comprate allora a pacchi e se lerano messe come cinture, come bandane attorno alla testa, attorno al polso, ed erano entrati in barba a chi voleva ostacolarli, perché la legge prescriveva lobbligo di portare la cravatta, ma non come! 

E le assemblee per decidere se i paesi dovessero essere ricostruiti dove erano (come avrebbero preferito gli anziani) o se dovesse essere costruito un centro più grande che li comprendesse (come avrebbero preferito i giovani)… Un libro bellissimo che vale ancora la pena di rispolverare o di leggere per la prima volta, se non letto. 

Abbiamo parlato di questo e altro con Valentina, giorni fa, per caso. 

E veramente per caso, non pensando affatto ad alcuna commemorazione, fra laltro non ricordata dai giornali, mi trovo a scrivere ora, dopo qualche giorno, che poi è giusto il 16 gennaio del 2021, anniversario della grande scossa che trasformò la vita di tanti, in una notte.

Maria Di Carlo

 

 

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