giovedì, gennaio 21, 2021

PIER LUIGI BERSANI: "Livorno, che sconfitta"


di Concetto Vecchio
L’ex segretario dem: "Nel 1921 ancora prima di dividerci avevamo già perso, perché il fascismo era alle porte Solo Gramsci lo capì. L’erede del riformismo? Il Pci"

Pierluigi Bersani, a chi ha dato ragione la storia sul congresso del 1921?

«A Livorno sono stati sconfitti sia i riformisti che hanno predicato la rivoluzione senza farla, sia i comunisti che erano convinti di farla fuori tempo, mentre ormai si era affermato il fascismo. Dunque l’assise si celebra dopo la sconfitta, non prima».

Cosa intende dire?

«La sconfitta delle sinistre era già maturata nella realtà del Paese. Una delle accuse che viene mossa è che al congresso non si sia parlato con allarme del fascismo: per forza! Ce l’avevano sulla pelle da due anni».

Il destino del Paese era segnato?

«Altroché. E questo perché la sinistra non si era imparentata con le altre forze popolari, e questo non solo per colpa sua. C’era mezza borghesia, compresi settori cattolici, che era convinta che il fascismo fosse un fatto transitorio. E che servisse per tenere fuori la sinistra dai ponti di comando».

Concentrarsi contro il regime invece che fare la scissione non sarebbe servito?

«È una tesi irritante. Mussolini dopo la marcia su Roma aveva 35 deputati su 530, ma il governo l’hanno votato tutti tranne la sinistra. E c’erano persino gli editoriali del Corriere della Sera che inneggiavano all’aggressione di Palazzo D’Accursio a Bologna».

L’unità delle forze popolari è una lezione che vale anche oggi?

«In un Paese come il nostro quando le forze popolari e democratiche non trovano un’intesa comune arriva la destra».

Con chi avrebbe voluto essere nel ’21?

«Gramsci. Aveva visto più chiaro di tutti che la reazione stava occupando lo Stato».

La sua è la storia di un riformista.

Non avrebbe dovuto sentirsi più vicino a Turati?

«Il Pci ha governato ereditando il meglio della tradizione riformista, dandogli una solidità politica, quella che era mancata alla tradizione socialista».

Che Pci era quello emiliano?

«Un partito riformista la cui struttura leninista è sopravvissuta fino agli anni 80, per esempio negli stipendi».

Cioè?

«Quando veniva un russo a trovarci si permetteva di criticare Berlinguer e di trattarci come fossimo dei traditori.

Allora io portavo il discorso sullo stipendio dei funzionari, che era il mio di allora. In Unione Sovietica erano dei privilegiati, mentre io da assessore regionale guadagnavo come un metalmeccanico. E non osavo dirlo perché la gente avrebbe pensato: ma questi o sono ladri o fanatici. Non eravamo né ladri, né fanatici. Eravamo dei comunisti emiliano-romagnoli».

Lei perché diventa comunista?

«A ventun anni mi sono accorto che la strada della sinistra extraparlamentare portava all’impotenza. Mi dissi: voglio stare laddove sta la gente che voglio difendere, i deboli, i lavoratori.

Stavano nel Pci. E così mi sono iscritto.

Era il 1972».

Che umanità s’incontrava nelle sezioni?

«Ci arrivai che ero già laureato, ed ero un piccolo dirigente di territorio, ma mi accorsi subito che dovevi toglierti di dosso tutto il narcisismo. Con i lavoratori e i vecchi partigiani ci dovevi discutere sul serio, dalla Cina alla scuola di quartiere».

Qual è la cosa più importante che imparò?

«Che l’autorevolezza ti arrivava molto da quel che facevi, non solo da quel che dicevi».

Tra il socialismo e il comunismo qual è l’eredità che sopravvive?

«Si devono ai riformisti i meccanismi e le conquiste di autorganizzazione che sono ancora patrimonio della democrazia italiana. E i comunisti combatterono, nella clandestinità, strenuamente il fascismo, avendo un ruolo enorme nella Resistenza, fornendo una base popolare alla nuova democrazia e sospingendo fortissimi processi di emancipazione».

Ezio Mauro riporta nel suo libro una frase del Togliatti degli inizi: "Ci accompagnavamo con gli operai, parlavamo e sentivamo i loro stessi discorsi". Cosa ci rivela questo passaggio?

«Gli intellettuali cercano di capire dove può essere la vera forza di un cambiamento. È l’idea di mettersi alla guida e a servizio di un movimento.

Quante volte Gramsci ha scritto che i padroni vincono perché hanno più parole degli operai? Mentre ascoltava pensava che toccasse a lui dar loro un po’ più di parole. È l’idea di una politica che deve aprire le orecchie e mettersi a studiare realtà nuove».

E perché la sinistra ha smesso di farlo?

«Abbiamo vissuto un salto tecnologico paragonabile a quello di fine Ottocento, che ha caratterizzato una globalizzazione impetuosa. La sinistra lo interpretò come la globalizzazione dal volto umano. E con quelle parole d’ordine vinse».

Dove fu l’errore?

«Perché più che un inno all’uguaglianza, le parole d’ordine furono pari opportunità e merito.

Solo che poi le cose si sono presentate con un altro volto e la sinistra ha mantenuto ferma quella ricetta anche quando la globalizzazione mostrava le spine. La gente invocava protezione. E lì è arrivata la destra con le sue risposte».

La Repubblica, 21 gennaio 2021

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