sabato, gennaio 09, 2021

L’intervista. Fabrizio Catalano: “Mio nonno Sciascia un genio semplice”

Leonardo Sciascia col nipote Fabrizio Catalano

di Mario Di Caro 
Pirandello e Zola erano figure familiari che lo fissavano da quei ritratti appesi nelle pareti della casa, mentre Bufalino e Pannella erano dei compagni di giochi. Capita se tuo nonno si chiamava Leonardo Sciascia e se da bambino hai respirato aria di letteratura. «Gide, Apollinaire Stendhal, Voltaire erano persone di casa perché mio nonno nella casa di via Scaduto collezionava ritratti di scrittori - dice Fabrizio Catalano, regista, nipote di Leonardo Sciascia - Quando ho visto il film di Polanski “L’ufficiale e la spia”, nella scena in cui appare il personaggio di Zola mi sono emozionato perché ho ricordato subito il suo ritratto in salotto: lo percepisco come uno di casa».

È il giorno del centenario di Leonardo Sciascia e Catalano svuota il pozzo senza fondo delle sue memorie di bambino nella casa di un nonno così famoso e così normale, come dice lui. 

Ma fra tanti quale è il ricordo più intenso che si porta dietro?

«Sicuramente uno al quale eravamo legati entrambi, la scoperta della sua collezione di sigilli. Io passavo intere settimane dai nonni e lui mi faceva salire in piedi sulla sedia e mi mostrava questi sigilli. Io li potevo toccare ma solo nelle sue mani. Ho bellissimi ricordi anche dell’ultima vacanza assieme, nel 1988, in Friuli dai Nonino, dove ha scritto “Il cavaliere e la morte”: due mesi in giro per l’Italia viaggiando rigorosamente in treno. Abbiamo girato più di un mese in quella zona e poi siamo scesi lentamente verso Palermo. È stato un viaggio formativo».

Quando ha preso coscienza che suo nonno era una celebrità?

«La celebrità del nonno a casa veniva vissuta come qualcosa di normale. Avevo due anni e a casa dei nonni venne un giornalista messicano che mi trovò seduto sul vasino. Se guardate le foto di mio nonno e Bufalino alla Noce li vedete con i pantaloni dell’anno prima, le cinture vecchie, dietro ci sono i vestiti stessi al sole: c’era una normalità che non appartiene più alla classe intellettuale di oggi».

Lei fece in tempo a dire a suo nonno che avrebbe voluto fare il regista: lui cosa le rispose?

«Gli dissi che volevo fare il regista di cinema la sera dopo avere visto “Per qualche dollaro in più”: gli dissi che mi era piaciuto, così come uno dei protagonisti, Lee Van Cleef, e lui subito rispose: “il cattivo”. Cominciò a cercare i libri che aveva sul cinema,: aveva riviste e vecchi saggi sul cinema e l’erotismo, la sua casa era una miniera. Mi ricordo che anche da ragazzino gli parlavo di vecchi attori come Yul Brinner e Robert Mitchum e lui si stupiva che il mio immaginario non fosse popolato da attori contemporanei come Sylvester Stallone, che allora spopolava».

Già, come mai?

«Perché ognuno saluta con la coppola che ha: sono cresciuto con una certa diffidenza verso la contemporaneità, evidentemente».

Veniamo ai consigli che tutti le invidiano: che libri le suggerì?

«Un consiglio che non si aspetta nessuno: nella mia vita sono successi eventi che mi hanno portato verso il Belgio e lui mi consigliò “Bruges la morta” di Rodenbach, un libro simbolista. Da piccoli ci leggeva le poesie di Trilussa in campagna e questa cosa lo divertiva, raccontava vecchi aneddoti. Mio fratello, invece, aveva in comune con lui una passione per Stevenson».

A proposito della casa di campagna, nel suo immaginario di bambino che percezione aveva dei tanti scrittori, registi e politici che venivano a trovare suo nonno?

«Bufalino e il fotografo Peppino Leone erano attesi con piacere perché con noi bambini ci sapevano fare. Io e mio fratello intrattenevamo Bufalino coi racconti sui dinosauri. Anche quella di Pannella era una visita gradita. Ma c’erano anche i rapporti coi vicini di campagna: una volta Nicuzzu e il fratello litigarono e salirono da mio nonno affinché stabilisse chi aveva ragione. E poi venivano uomini politici, Mannino, Craxi, Martelli, anche ideologicamente lontani da lui ma che venivano a sentire cosa pensava Sciascia di fatti che stavano accadendo: una cosa abbastanza strana, vista oggi».

Nel centenario della nascita qual è la lezione di Sciascia che resta?

“Nel “Cavaliere e la morte” c’è uno scambio di battute tra il Vice, che dice come il potere si basi sull’insicurezza dei cittadini, e un altro personaggio, secondo il quale saranno insicuri anche quelli che spargono insicurezza. Basterebbe questo per testimoniare la deflagrante attualità del pensiero di Sciascia. È il pensiero di uno scrittore che parla dell’oggi e forse anche di domani, temo».

L’impressione è che la nostalgia del pensiero di Sciascia sia legata più al polemista che allo scrittore. È d’accordo?

«Credo che tutto di Sciascia sia impegno civile, le poesie giovanili sono impegno civile, Le parrochie di Regalpetra sono impegno civile, non solo I professionisti dell’antimafia. L’impegno civile è in tutta la sua opera e quindi le risposte ci sono già nei suoi libri su cosa avrebbe detto di certe situazioni. Se c’è nostalgia di questo impegno è perché percepiamo che la società è nuda senza voci indipendenti, siamo assediati dal politicamente corretto. Degli ultimi trent’anni di vita culturale dell’Italia non resterà traccia a parte il successo di Camilleri».

La memoria di suo nonno finora è stata celebrata come merita?

«Onorare la memoria di mio nonno fa anche comodo. Mia madre dice che Sciascia si onora da solo perché i suoi libri sono là. È un carro del vincitore sul quale molti hanno interesse a saltare».

La Repubblica Palermo, 8 gennaio 2021

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