martedì, gennaio 19, 2021

Emanuele Macaluso: passeggiando sotto casa tra il Migliore e Berlinguer. «Essere di sinistra ha avuto un senso, perché ha migliorato la vita a milioni e milioni di uomini. Ne è valsa la pena, direi»

di Concetto Vecchio

 

Emanuele Macaluso (nato il 21 marzo 1924) su una panchina in piazza Santa Maria
Liberatrice, nel quartiere Testaccio di Roma, dove vive (
Concetto Vecchio)


RIPUBBLICHIAMO L'INTERVISTA A CONCETTO VECCHIO PER VENERDI' DI REPUBBLICA DEL 20 NOVEMBRE 2020

Comunista a 16 anni, oggi ne ha quasi 97: "Sono l'unico ancora in vita della segreteria di Togliatti. Che non era gelido come raccontano"
«Sono l’unico ancora in vita che è stato nella segreteria del Pci con Togliatti» dice con civetteria Emanuele Macaluso, mentre si avvicina alla chiesa di Testaccio, a Roma. Togliatti è morto nel 1964. E Macaluso era già qualcuno. Il vecchio senatore è uscito per la sgambata pomeridiana, avvolto nel cappotto e con la coppola calcata sul capo. Chi si ricorda più della storia centenaria della sinistra italiana? Macaluso, che ha 96 anni, («quasi 97», celia), la sa a memoria, visto che l’ha attraversata per intero con la stessa elegante leggerezza con cui percorre piazza Santa Maria Liberatrice animata dal vocìo dei bambini.

«Non è vero che Togliatti era gelido, come raccontano. Era curioso degli altri, invece. Gli piaceva conversare e farsi raccontare i fatti minuti. Ha meriti politici enormi. Senza la sua svolta di Salerno non ci sarebbe stata nemmeno la Costituzione. Soprattutto capì, con saggezza, che l’insurrezione sarebbe stata l’inizio della fine per la sinistra, e quindi cercò di ancorare il partito alla democrazia: per farlo serviva una cornice istituzionale solida. Non era affatto un’intuizione scontata. E quando subì l’attentato, nel ‘48, fu il primo a ordinare a Pietro Secchia, e alla sua compagna Nilde Iotti, di non cedere alla tentazione della rivolta. 'Calma! Calma! Calma!' predicò dal letto d’ospedale». Mima la scena come un attore a teatro.
L’edicolante alla fine della piazza lo omaggia calorosamente. «Come lui non ce ne sono più!» dice. Per via dei cinque quotidiani che compra ogni mattina? «No, no» ride. «Per l’intelligenza. Mica è come quelli che ce stanno adesso, n’artro pianeta proprio». Macaluso non dice niente. S’incammina nella luce opulenta di novembre, le mani affondate nelle tasche del pastrano. «E come va al giornale?» domanda all’improvviso. La politica per lui è invariabilmente intrecciata al giornalismo. «Ho sempre scritto. Ma non ho mai conservato nulla, un’altra lezione di Togliatti». Ogni mattina su Facebook esce un suo commento, pur non avendo né un pc, né un tablet, e nemmeno un account. È un'ex firma dell’Unità, Sergio Sergi – a cui il vecchio direttore detta il testo al telefono dopo averlo scritto a mano sul tavolo della cucina – a pubblicarlo sul social. Ogni giorno piovono centinaia di commenti, ma Macaluso non li vede.

Suo padre ferroviere si era iscritto al Fascio, per quieto vivere, dopo che era stato licenziato per uno sciopero contro il regime. La mamma chiamava invece Mussolini “Faccialorda”.  A 16 anni Emanuele si è ammalato di tubercolosi, gli diedero poche settimane di vita, trascorse la convalescenza nella solitudine di un sanatorio, sulla collina di Caltanissetta. Qui un compagno, Gino Giannone, lo venne a trovare a sorpresa e gli chiese di fare parte di una cellula comunista. «Non avevo letto né Lenin né Gramsci, ma vedevo la miseria che mi circondava: quella degli zolfatari nelle miniere allagate, e dei contadini. Dopo la Liberazione occupammo le terre. Scontrarsi con i mafiosi e con la polizia, che li proteggeva, è stato un grande atto formativo». Arguisci che alla grande storia Macaluso deve tutto. E lui non voleva essere semplicemente un comprimario.

Ci sediamo su una panchina. Chi è stata la figura più importante? «Girolamo Li Causi» risponde subito. «Era stato in carcere 15 anni – quindici anni, capisci? – per attività antifascista, quando Togliatti lo spedì in Sicilia a riorganizzare il partito uscito dalla clandestinità. Un giorno ci portò tutti a Villalba, nel feudo del capomafia Calogero Vizzini. I mafiosi erano addossati al muro della piazza e Li Causi li attaccò per come sfruttavano i contadini. E quando nominò il feudo Micciché, di cui Vizzini era il gabelloto, il boss alzò imperioso il bastone: 'È falso! È falso!' urlò. Sono passati quasi 80 anni, ma ce l’ho davanti agli occhi». Macaluso si emoziona. «Ci spararono addosso, capisci? Ma Li Causi non si scansò. Non scese dal tavolo sul quale comiziava». Non parlava da un palco?, provo a correggerlo. «No. Comiziava su un tavolaccio» taglia corto. «Fu ferito, ma non si mosse. Rimase claudicante per tutta la vita. Per noi ragazzi fu una enorme lezione di coraggio: non si doveva avere paura se si voleva combattere la mafia».

È stato amico di Leonardo Sciascia e di Renato Guttuso. «Elio Vittorini, nell’estate del 1943, venne a Caltanissetta per informarci che di lì a poco ci sarebbe stato lo sbarco angloamericano. Calogero Boccadutri andò a prenderlo alla stazione. Non sapeva che viso avesse Vittorini, così seguì l’unico forestiero che era sceso dal treno. Poco dopo li vidi mentre parlavano, nel basso abitato da Boccadutri, ma non osai presentarmi».

A Macaluso si possono fare tutte le domande, anche le più private. È sempre stato eretico: saldamente dentro la grande chiesa comunista, ma anche fuori. L’Unità, che guidò da direttore nei giorni della morte di Berlinguer (Tutti, il titolo che uscì all’indomani dei funerali, che poi Francesco Piccolo scelse come titolo per il suo libro più bello, è opera sua), fu quella sbarazzina delle vignette di Staino, che un giorno fece lo spiritoso persino con il suo amico Giorgio Napolitano.

Finì in carcere per adulterio, perché conviveva con una donna sposata, Lina («mi condannarono a sei mesi»), e rischiò la galera una seconda volta, anni dopo, perché i figli della coppia erano ritenuti illegittimi. Lo salvò la latitanza in un casolare nel Modenese. Ebbe molte storie d’amore, talune tormentate o tragiche, tra cui una love story con una nobile. Il Pci era bigotto? «Bigotto?» riflette stupito. «C’era una forma di moralismo sbagliata, di facciata. Io ebbi spesso contro i dirigenti del partito. Eppure Togliatti, Longo e Pajetta avevano lasciato le mogli per altre compagne, la doppia morale imperava». Perché la gente ha ancora nostalgia di Berlinguer? «Perché lo sentiva vero, ed era essenziale. Con Enrico ho avuto un rapporto strettissimo. Per tanti anni abbiamo condiviso la stessa stanza a Botteghe Oscure. Fui l’unico a cui confidò che l’incidente stradale in Bulgaria, nel 1973, era stato un attentato. Nemmeno al fratello l’aveva raccontato».

Calano le ombre su Testaccio. «Ho i piedi gelati» dice. La passeggiata è finita. «Essere di sinistra ha avuto un senso, perché ha migliorato la vita a milioni e milioni di uomini. Ne è valsa la pena, direi». E scompare nel buio.

Sul Venerdì del 20 novembre 2020


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