sabato, gennaio 02, 2021

BIOGRAFIA INTELLETTUALE. Scalfari. Dialogo sul riformismo

Enrico Berlinguer ed Eugenio Scalfari nella sede di Repubblica nel 1984

di
MAURIZIO MOLINARI
Da Gobetti a Berlinguer, dal "Mondo" all’"Espresso" e "Repubblica" A pochi giorni dai 45 anni del nostro giornale, il fondatore racconta passato, presente e futuro di una certa idea dell’Italia
È la "sfida dei riformisti" la chiave di lettura che Eugenio Scalfari sceglie per rileggere la Storia d’Italia e dei giornali che ha diretto, guardando in avanti alle «battaglie che ci aspettano per rendere l’Europa più coesa, federale, affrontando le sfide del clima». L’inizio del nuovo anno, assieme all’imminente 45° anniversario della fondazione di Repubblica, offrono al fondatore di questo giornale l’opportunità di riflettere e guardare oltre la tragedia della pandemia per rivolgersi alle "nuove generazioni" e ribadire che «oggi come in passato lo sviluppo dell’Italia passa attraverso scelte riformiste».

Ascoltando Scalfari, seduto nel suo salotto circondato di libri, ciò che colpisce è la determinazione nell’indicare il filo conduttore della Storia nazionale nella costante contrapposizione, in epoche diverse e con protagonisti differenti, fra chi ha voluto e chi si è opposto alle «riforme di cui il nostro Paese ha avuto bisogno». Il liberalismo di Gobetti negli anni Venti sulla questione sociale, il liberal-socialismo di Carlo Rosselli negli anni Trenta per sfidare i dispotismi, il liberalismo cattolico di De Gasperi nel dopoguerra per spingere la Dc verso l’innovazione dello Stato, le idee di Ugo La Malfa e Gaetano Salvemini sul ruolo dello Stato nell’economia come il manifesto sull’Europa di Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Altiero Spinelli vengono letti da Scalfari come tasselli di un percorso unico che ha il suo protagonista più rilevante in Enrico Berlinguer, per la determinazione che dimostrò nel voler affermare un’idea di "comunisti italiani" che prendeva le distanze dal Cremlino per andare incontro all’Europa, alla Nato e quindi alla Dc. Con un percorso che Aldo Moro aveva deciso di completare prima di essere rapito dalle Br. Nel rievocare fatti e personaggi di questo mosaico riformista, Scalfari li sovrappone ad una parabola del giornalismo italiano che parte dal Risorgimento Liberale e dal Mondo di Mario Pannunzio per arrivare all’ Espresso di Arrigo Benedetti e quindi alla fondazione di Repubblica . L’intervista che segue consente di rivivere ogni momento di questa storia, che ci consegna una chiave di lettura tanto più importante in quanto anche oggi l’Italia si trova davanti al bivio della responsabilità di innovare per affrontare le sfide del XXI secolo: nell’economia come nell’ambiente, nei diritti come n el legame con l’Europa.

Quali sono i personaggi riformisti che ti hanno segnato di più?

«Penso a Piero Gobetti, interprete di un liberalismo mai conservatore ma proiettato verso la piena comprensione di una questione sociale che all’inizio degli anni Venti era esplosiva e non compresa dalle classi dirigenti, tanto che sfociò nel fascismo. Gobetti era la risposta innovativa e riformatrice a un liberalismo chiuso in se stesso, riflesso del tramonto dello Stato liberale. Morì in seguito alle percosse degli squadristi che avevano visto in lui una vera minaccia. Come accadde anche a Giovanni Amendola, padre di Giorgio che sarebbe confluito nel partito comunista proprio per sfiducia verso le democrazie liberali, viste come incapaci di reggere la sfida fascista.

L’altro personaggio a cui penso è Carlo Rosselli, fautore del liberalsocialismo, una visione opposta allo stalinismo che dominava gli anni Trenta. Anche Rosselli pagò con la vita l’essere di tanti anni più avanti di altri esponenti della sinistra non solo italiana. Ma qui voglio ricordare una figura chiave della mia biografia intellettuale. È Enrico Berlinguer, con il quale strinsi una vera amicizia. Come l’intervista lunghissima, fantastica, che mi concesse nel 1981 e la conversazione avuta a fine aprile 1984 ancora oggi testimoniano. Morì pochi giorni dopo avermi incontrato. Berlinguer fu il grande riformatore della tradizione comunista».

 

In che cosa si esprimeva il riformismo di Berlinguer?

«Era un leader di prim’ordine perché aveva saputo mettere sotto accusa il legame fra il Pci e Mosca. Voleva una forma di comunismo, ma forse si dovrebbe dire di socialismo, italiano. All’epoca, tra gli anni Settanta e Ottanta, erano ancora i sovietici a comandare e a condizionare. Ma lui era determinato, voleva rompere quel legame di chiara sudditanza. Questo avrebbe permesso al Pci di essere pienamente una forza riformatrice in un paese complesso come l’Italia».

Che tipo di rapporto avevi con Berlinguer?

«Avevano un rapporto molto stretto. Ci vedevamo spesso a cena a casa sua. Oppure presso un comune amico, Antonio Talò, dove lui si sentiva tranquillo.

Quando ebbe il malore, il pomeriggio del 7 giugno 1984 a Padova, cadendo a terra al termine di un comizio che non aveva voluto interrompere, lo soccorsero, mentre la piazza era attonita. Ma era troppo tardi e sopraggiunse la morte. Ai funerali che si fecero a Roma portai l’omaggio mio e del giornale alle Botteghe Oscure, dove mi accolsero alcuni leader del partito che, sapevo benissimo, avevano attaccato il nuovo corso di Berlinguer. Erano davvero in pochi a sostenere la svolta verso un comunismo italiano, distinto e distaccato da quello sovietico. Sotto questo aspetto la lezione politica Berlinguer è stata assai diversa, in maniera decisiva, da quella di Palmiro Togliatti».

Perché contrapponi Togliatti e Berlinguer, che cosa ti colpì nelle differenze che li distinguevano?

«Togliatti aveva sempre tenuto un piede di qua e uno di là, era legato a Mosca, era andato in Spagna durante la guerra civile come rappresentante dell’Internazionale di osservanza sovietica. Poi era tornato in Italia, aveva operato la “svolta di Salerno” e sostenuto il governo Badoglio, in seguito era entrato nel governo De Gasperi come ministro della Giustizia. Da segretario generale del Pci Togliatti si adoperava per non spezzare il legame con i comunisti sovietici, ma al tempo stesso si sforzava di costruire una via nuova, europea: quella che diventerà “la via italiana al socialismo”. Lo andai a trovare quando nel luglio del 1948 venne ferito nell’attentato.

Togliatti mi disse che voleva accettare in Parlamento il matrimonio religioso e non solo civile: non era contrario all’essere comunista e a conciliare questo con un sentimento religioso. Era il suo approccio di fondo. Gli risposi “non sono né comunista né religioso ma ti ammiro”».

Torniamo a Berlinguer: con lui il Pci fece cadere il tabù sull’Europa e poi sulla Nato: si trattò decisioni significative per il partito comunista più grande dell’Occidente. Che impatto ebbero sulla politica italiana?

«Diedero una dimensione più vasta e solida al riformismo di cui egli era il principale interprete. Repubblica sosteneva questa linea di Berlinguer ma ci attaccavano. Aspramente. Continuammo su quella linea, consapevoli che sostenere Berlinguer voleva dire aiutare le riforme. Tuttavia la vulnerabilità di Berlinguer consisteva nel non aver molto seguito dentro il suo partito. La scelta per il comunismo italiano non era poi così popolare. Egli procedette con piccoli passi successivi. All’inizio andò a Mosca a una riunione del Pcus dove fu contestato, non gli piaceva l’idea di sedersi in una cornice mondiale perfino accanto ai cinesi maoisti.

Poi si recò ad incontrare i leader comunisti in Francia e Spagna - era la fase dell’eurocomunismo - ma l’esito non lo convinse più di tanto. “Non stanno in piedi da soli” mi disse. Eravamo amici e mi raccontava tutto. Dunque scelse la formula dei “comunisti italiani” e in quanto tali, mi disse personalmente, “siamo pronti a fare l’accordo con la Dc”».

Ben prima di conoscere Berlinguer, hai lavorato al “Mondo”. Che tipo di riformismo era quello del giornale di Mario Pannunzio?

«Pannunzio era un liberale progressista con una forte vocazione riformatrice. Ritrovavo in lui qualcosa di Gobetti, la stessa vocazione alla libertà, l’identico rifiuto della “torre d’avorio” in cui certi intellettuali tendevano a rinchiudersi. Ma c’era in lui anche la spinta sociale di un Carlo Rosselli. In Pannunzio, liberale autentico, prendeva forma in modo pragmatico, mai ideologico, l’idea rosselliana, anche se lui non si sarebbe mai definito socialista.

Nei fatti però lo era per la sua visione dell’economia, dei rapporti sociali e della relazione tra Stato democratico ed economia. Il suo percorso partiva dal giornale Risorgimento liberale ma la testata per la quale è ricordato è il settimanale Il Mondo. La cui influenza sul dibattito politico del dopoguerra è stata immensa. Fu uno straordinario strumento per influenzare la politica in senso riformatore, per rinnovare il paese dalle fondamenta. Ma Pannunzio non si accontentava di questo e infatti il suo cammino lo portò a fondare il primo partito radicale, alla ricerca della “terza via” tra la chiesa democristiana e la chiesa comunista. Era una scelta genuina, personale, politica. Lo ricordo seduto assieme a me sui gradini di piazza di Spagna, intento a progettare il futuro. Con lui, votati alla terza via, c’erano Ernesto Rossi e Ferruccio Parri, l’uomo che era stato guida intransigente della Resistenza e primo presidente del Consiglio della nuova Italia. Allora Parri era il segretario di una piccola formazione liberalsocialista dopo essere uscito dal Partito d’azione.

Le radici, come ho detto, erano quelle di Rosselli, trasferite nell’Italia chiusa degli anni Cinquanta. Avevo molto in comune con Pannunzio. Come me veniva dal Partito liberale e anzi alla fine della guerra era una delle figure più influenti di quella formazione. Ma decise che doveva stare a sinistra, come avrebbe fatto anche Gobetti se fosse vissuto. Era liberale ma di sinistra. E io fui rapito da questa idea di socialismo-liberale».

In cosa si esprimeva concretamente questo progetto?

«Vorrei ricordare i “convegni del Mondo”, voluti e organizzati da Pannunzio. In essi si esprimeva un forte sostegno al programma innovatore delle forze indirizzate verso il centrosinistra. Se i liberali erano rimasti sulla sponda conservatrice, i repubblicani di Ugo La Malfa rappresentavano l’idea più moderna del liberalismo calato nei problemi di sviluppo di una società industriale. I convegni ebbero un ruolo cruciale nel sostenere la nazionalizzazione dell’industria elettrica ed altri temi riformatori. Dominava il pensiero di Ernesto Rossi e le sue idee sul ruolo dello Stato nell’economia. Lo Stato era protagonista del sistema produttivo, con il compito di riformarlo, innovarlo, senza tentazioni assistenziali e clientelari. E poi c’era l’Europa.

Ernesto Rossi era stato con Eugenio Colorni e Altiero Spinelli a Ventotene, assieme scrissero il “Manifesto” che si articolava proprio sulla visione di un’Europa integrata e sul ruolo statale nell’economia, una volta liberati dalla dittatura fascista».

E poi c’è il riformismo cattolico. Come consideravate Alcide De Gasperi?

«De Gasperi era un riformista, un liberale cattolico. La sua Dc credeva nelle riforme dello Stato, basti pensare alla riforma agraria, al libero scambio, al ritorno dell’Italia nell’occidente delle democrazie avanzate. Quando De Gasperi muore, nel ’54, c’è Pannunzio nel giornalismo e Ugo La Malfa nella politica: due laici che di fatto ne difendono il lascito. All’inizio La Malfa era azionista, uno dei capi del Partito d’azione, sempre attento a quello che si muoveva verso sinistra. Eravamo molto legati con Ugo. Lui un giorno mi disse: “Vado nel Pri perché qui c’è gente di sinistra ma anche di destra come Carandini”.

Voleva essere un ponte e lo fu. “In quanto repubblicano sottolineava - potrò tenere i contatti con voi e con te”. Anche per questo quando morì fui io a pronunciare il discorso alle esequie a Piazza Colonna. Era un personaggio di grande intelligenza e preveggenza».

Quale era il tuo legame con Ugo La Malfa?

«La Malfa era per una presenza ben calibrata dello Stato nell’economia. Ovviamente accanto allo sviluppo del settore privato. Era per una radicale riforma dello Stato e della pubblica amministrazione, in grado di liberarla delle incrostazioni del passato e di una burocrazia persistente e frenatrice. Riteneva che la giovane Repubblica avesse bisogno di una struttura efficiente. Erano gli stessi obiettivi del gruppo del Mondo, tra i cui collaboratori più prestigiosi c’era Gaetano Salvemini, il grande meridionalista. Eravamo a favore della Cassa del Mezzogiorno, una delle maggiori conquiste di quegli anni. Essere di sinistra significava battersi per uno Stato capace di aiutare l’economia, renderla più vicina ai cittadini, più equa».

Dunque, chi era l’avversario politico?

«La Dc che aveva dimenticato De Gasperi e che nella sostanza si opponeva oramai a qualsiasi cambiamento. Nel 1963 il nostro Espresso, che avevo ereditato da Arrigo Benedetti, faceva grandi inchieste proprio sulle riforme, sfidando il potere democristiano.

La Dc era l’avversario direi naturale, in quanto partito che non voleva le riforme che avrebbero intaccato il suo potere.

E poi c’era questa tendenza confessionale, aveva i preti sempre fra i piedi.... Le forze conservatrici erano numerose e agguerrite. Noi le smascherammo con lo scoop dell’Espresso sulla storia del “Piano Solo” del generale De Lorenzo. Ci fu un periodo in cui in Italia si temette il colpo di Stato degli apparati più retrivi».

Il passo seguente fu la fondazione di “Repubblica”…

«Dopo il settimanale decisi con Arrigo Benedetti di fare un quotidiano. Andammo a chiedere i soldi al proprietario della Nestlé e ad altri. Repubblica diventa erede dell’Espresso e del riformismo ritrovato nel sostegno a Berlinguer, al nuovo Pci che si era staccato dai sovietici e accettava la sfida del governo in una società democratica dell’occidente.

Eravamo anti-Dc perché Aldo Moro, la figura allora più rappresentativa del partito cattolico, oscillava. All’inizio era molto conservatore, poi si spostò verso il centrosinistra, ne divenne anzi uno dei maggiori interpreti, e io iniziai ad avere un rapporto con lui. Per altro quando nacque Repubblica - noi ovviamente non potevamo saperlo - stavamo per entrare negli anni di piombo e la parabola politica di Moro si avviava alla sua tragica conclusione».

Che cosa ricordi del rapimento in Via Fani?

«Poco prima del giorno in cui fu rapito, Moro mi aveva invitato nel suo studio spiegandomi il programma del nuovo governo che stava per nascere con il voto anche della sinistra: “Fra 15 giorni vado in Parlamento e propongo un’alleanza con il Pci” mi disse.

“Per due legislature” aggiunse.

Moro al momento non voleva il Pci al governo ma nella maggioranza parlamentare. Chiamava i comunisti gli “alleati ufficiali”, in prospettiva gli avrebbe dato anche dei ministeri. “Sono d’accordo con il Pci” mi assicurò. Poi Moro mi chiese: “Hai preso appunti?

Quanto ti ho detto non lo sa nessuno, tu mi fai un’intervista ed esci con il tuo giornale la mattina in cui parlo alla Camera dei Deputati. Esci alle 7 del mattino, io parlo alle 11”. Quella mattina Repubblica esce come d’accordo, ma lui viene rapito dal commando delle Brigate Rosse in Via Fani. E comincia il sequestro che si concluderà con il suo corpo depositato nel bagagliaio di un’auto in Via Caetani, a metà strada fra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù. La ricerca durò 52 giorni, fu vana e poi arrivò il cadavere. Lì l’Italia repubblicana subì un trauma terribile, per riprendersi poi all’inizio degli anni Ottanta con una sinistra operaista e rivoluzionaria che non ci piaceva. Anche il Pci ne uscì indebolito. Le Br riuscirono a far fallire il progetto riformista che era nato con Berlinguer e che Moro voleva portare a compimento».

Insomma, il riformismo come chiave di lettura dell’Italia, da Carlo Rosselli a Enrico Berlinguer, ed anche del giornalismo dal “Risorgimento liberale” al “Mondo” fino all’“Espresso” e “Repubblica”. Due storie parallele...

«Sono i due processi che hanno portato a Repubblica, giornale della sinistra democratica italiana, riformista ed europea, che Ezio Mauro ha continuato dopo i miei venti anni di direzione. Un giornale che fu anche casa di personaggi come Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, molto colto ma gelido».

Dove è oggi la sfida più avanzata del riformismo?

«Rinnovare il nostro Paese ora non basta più. Serve la Confederazione europea di cui parlava Altiero Spinelli. Tanto più che leader come il russo Vladimir Putin vogliono imporsi su scala globale, anche a spese dell’Europa. E propongono addirittura il superamento in chiave autoritaria della democrazia liberale, la considerano obsoleta».

Come si può arrivare a un’Europa più integrata?

«Anche e soprattutto attraverso la battaglia per il clima. Bisogna aiutare i Paesi europei che sono bagnati dal mare o dai grandi fiumi perché sono quelli che rischiano di più a causa dei cambiamenti climatici. Sono i più deboli. C’è qui un ruolo per l’Europa: dare vita ad una grande confederazione partendo dalle coste più minacciate, dal Baltico fino al Mediterraneo».

 

La Repubblica, 2 gennaio 2021

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