mercoledì, gennaio 20, 2021

1921-2021: L’ANNIVERSARIO. D'Alema: "Il Pci è sempre stato riformista"

I leader storici Antonio Gramsci insieme a Palmiro Togliatti
in un disegno di Renato Guttuso


di
EZIO MAURO
Massimo D’Alema ripercorre i cento anni dalla fondazione di Livorno tra ideali e contraddizioni "L’ambiguità era praticare il gradualismo nascondendolo col linguaggio della rivoluzione" E sui rapporti con l’Urss: "La rottura fu tardiva, Occhetto ha un merito storico"

Massimo D’Alema, lei è stato il primo presidente del Consiglio venuto dal Pci, nella percezione comune viene considerato come l’ultimo comunista, il figlio di quel partito. Voltandosi indietro, come giudica la scissione di Livorno del 1921 che portò alla nascita del Pci?
«Io penso che il gruppo dirigente del Pci si sia formato proprio nella riflessione autocritica sul congresso di Livorno. Tutto il pensiero di Gramsci è un’analisi autocritica sugli anni Venti: anzi, si potrebbe dire che Gramsci ha scritto un’opera monumentale sulle ragioni della sconfitta della sinistra in Italia. Quindi il ’21 è celebrato come l’evento della nascita del Pci ma in realtà risulta una sconfitta, una frattura del movimento operaio, proprio quando stava sorgendo il fascismo».

C’è voluto un secolo per arrivare a questa lettura?

«No. Ogni tradizione viene sempre creata e per il Pci il creatore è stato Togliatti, che ha utilizzato Gramsci: questa tradizione ha concepito il ’21 certo come l’evento mitico della nascita del partito, ma politicamente come un errore, e ha fatto risalire la vera nascita del comunismo italiano al congresso di Lione, non a quello di Livorno».

Livorno però resta il simbolo della scissione: perché nella storia della sinistra italiana riformismo e massimalismo non possono convivere?

«In realtà faticano a convivere nella vicenda europea. In origine l’obiettivo della trasformazione socialista era comune, ma c’era un mondo che concepiva l’avvento del socialismo come frutto di una rottura violenta, rivoluzionaria, e un mondo che lo pensava come risultato di un processo graduale. Poi questa divisione è diventata insanabile con la guerra fredda. Perché poi la vera frattura, diciamolo, è stata tra la scelta occidentale e il rapporto con l’Urss».

C’è una parola che a Livorno Turati oppone alla rivoluzione, rifiutando la violenza e la dittatura del proletariato: è il gradualismo. Il socialismo, spiega, si realizza costruendo una Casa del popolo oggi, una Camera del lavoro domani, conquistando un comune dopodomani. Non aveva ragione?

«Sì, ma mi lasci dire una cosa paradossale: in sostanza, senza mai teorizzarla, questa è stata la politica del Pci, la sua costituzione materiale».

Lei sta dicendo che il Pci in realtà ha praticato il riformismo senza mai dirlo?

«Aggiunga pure qualcosa di più: nascondendolo, con un linguaggio che lo rendesse compatibile con un orizzonte rivoluzionario. Ad esempio inventandosi le riforme di struttura che non si è mai capito bene cosa fossero: erano riforme e basta, ma non si poteva dire. Questo è stato il convivere nel Pci dell’ideologia rivoluzionaria, e della pratica riformista. Ambiguità, dicevamo: ma bisogna aggiungere che se il Pci fosse vissuto solo di Mosca e rivoluzione non sarebbe mai arrivato al 35 per cento dei voti».

Tuttavia in quegli anni la rivoluzione sembra a portata di mano in Italia, come credono i dirigenti russi. Secondo lei nei moti per il pane del ’17 e nell’occupazione delle fabbriche del ’20 c’era un progetto rivoluzionario?

«Non c’erano le condizioni per un’insorgenza rivoluzionaria. Come diceva Lenin la rivolta sociale di per sé non produce la rivoluzione. In più l’Italia era un Paese dove una rottura di quel tipo avrebbe portato a uno scontro con una borghesia che era attrezzata, come poi dimostrò. Insomma, la via sovietica non era praticabile in Occidente, e questo è Gramsci».

Insomma, nella divisione anche fisica del teatro Goldoni a Livorno lei si sarebbe seduto nei palchi a sinistra, dove stava Gramsci?

«Di tutte queste figure storiche Gramsci è quello che ha lasciato il segno più profondo nella teoria politica mondiale. Guardiamo l’occupazione delle fabbriche, una lotta che diventa autogoverno degli stabilimenti e della produzione: quanta modernità esprime rispetto alla jacquerie, alla rivolta plebea? Questa è una costante del nostro mondo. Penso a Emanuele Macaluso, purtroppo scomparso oggi: scoprì il Pci per ragioni sociali, vista la povertà della sua famiglia; poi le lotte, il partito e il sindacato furono la sua vera scuola».

C’è un’altra teoria politica in campo, allora, il riformismo turatiano. Come giudica la lettera di Turati ad Anna Kuliscioff, in cui dice che è un delitto politico dividersi tra una rivoluzione che non si fa e una riforma che non si tenta?

«È sacrosanto. Ma lei sa che né Gramsci né Turati furono i veri protagonisti a Livorno. Furono altri: dal versante comunista l’intransigenza bordighista e dall’altra i massimalisti di Serrati. Le due figure più grandi restano sullo sfondo».

Quanto ha pesato l’ossessione di Lenin e del Komintern di espellere i riformisti?

«I sovietici vogliono espellere i riformisti perché puntano a portare sulle loro posizioni il corpo centrale del partito. Non fanno una guerra di correnti, ma di conquista».

Infatti Zinoviev, presidente della III Internazionale, fino alla vigilia di Livorno è convinto che il Congresso accetterà la linea del Komintern. Si sbagliava: da questo lei deduce che la scissione è una scelta politica autonoma nata dentro il Psi?

«Io dico che la scissione nasce anche da un profondo disprezzo verso il "socialismo parolaio" che veniva soprattutto dal gruppo ordinovista torinese».

Ma non è colpito dai due interventi a Livorno di Christo Kabakciev, l’inviato del Komintern, che porta il diktat di Lenin e praticamente vota al congresso, schierandosi per la mozione comunista e annullando ogni autonomia del partito italiano?

«Ma nella visione di quel tempo i partiti erano semplici sezioni di un movimento internazionale. In questo c’era anche una reazione culturale al nazionalismo deteriore, quindi alla tragedia della guerra mondiale. Nella storia del Komintern abbiamo anche avuto casi terribili, di partiti sciolti dall’Internazionale. No, non c’era molta considerazione dell’autonomia. Prevalevano le ragioni della rivoluzione russa».

Cos’era il mito della Russia?

«Era l’irrompere nella storia europea di una novità epocale, con il mondo degli oppressi che si faceva Stato, poneva fine a un impero, a un’autocrazia, a una dinastia, a un’oppressione. Era cioè veramente il segno che cominciava una nuova storia. Naturalmente tutto questo venne visto dalla borghesia europea come una minaccia estrema, a cui si doveva reagire anche attraverso forme di rottura della democrazia, di totalitarismo. Per paradosso si potrebbe dire che in questo senso la rivoluzione russa è diventata anche il mito degli anticomunisti».

Come mai il primo intervento alla Camera sulla rivoluzione russa è di Turati?

«Perché tutti, compresi i riformisti, percepirono la portata di questa frattura. Forse solo chi aveva un rapporto più stretto con la realtà russa, come Anna Kuliscioff, coltivava una precisa diffidenza verso i bolscevichi leninisti».

Anche perché sperava che il governo del principe L’vov e di Kerenskij potesse guidare la rivoluzione di febbraio verso un esito democratico, prima dell’Ottobre...

«Sì, chi guardava da vicino vedeva nella rivoluzione componenti che furono spazzate via dal colpo di mano bolscevico. Ma chi era lontano vedeva i soviet, un programma di pace, terra ai contadini, potere agli operai. Si capisce il fascino dell’evento».

Si capisce meno perché quel mito è durato fino a tardi, troppo tardi, nonostante due smentite clamorose come le invasioni di Praga e Budapest. Come lo spiega?

«Chi come me appartiene alla generazione del ’68 non ha conosciuto il mito dell’Urss.

Io ero a Praga quell’anno per portare la mia solidarietà alla Primavera, e quando arrivarono i carrarmati ero in mezzo alla gente che manifestava per strada. Devo essere sincero: se il Pci non avesse condannato l’invasione, la mia generazione non sarebbe entrata nel partito. Insomma, il mito sovietico ha funzionato in modo diverso per generazioni diverse. Noi abbiamo avuto altri miti, come l’eurocomunismo, che si sono rivelati fallaci, ma non sono stati sanguinari».

Anche il sogno di un comunismo democratico era fallace, come dimostra il golpe sovietico contro la perestrojka di Gorbaciov, non crede?

«Non c’è dubbio che quella illusione ha ritardato il nostro cambiamento. Abbiamo pensato che la perestrojka potesse essere una riforma democratica del comunismo, e invece rappresentava – con tutta la generosità politica e morale di Gorbaciov – la fine di quel mondo. Un’illusione che Praga doveva già aver spazzato via».

Non era quello il momento per dare un giudizio definitivo sul comunismo sovietico?

«Sì, sì. Era il momento di dire che si era esaurita la spinta propulsiva del ’17. Quella dell’allontanamento dall’Urss è stata una storia troppo lunga, segnata da molti ritardi, molte sofferenze, molti timori che la rottura potesse portare a una lacerazione del partito, perché il mito sovietico era un elemento coesivo, c’è poco da fare. Questa è la verità: nella storia del Pci hanno convissuto diverse generazioni, diverse culture, diversi modi anche di essere comunista. Convivevano pagando un prezzo, perché quella coabitazione ha comportato naturalmente un’ambiguità».

Che è durata troppo a lungo: il tempo in politica ha il suo peso. Lei faceva parte del gruppo dirigente del Pci che decise di cambiare il nome al partito, ma solo dopo la caduta del muro di Berlino. Avverte questo limite nella svolta?

«Sì, e tuttavia fu un momento drammatico, per centinaia di migliaia di persone, a dimostrazione che il Pci non era un accampamento cosacco in Italia, ma una parte rilevante della vita del Paese. Vede com’è complicata questa nostra storia? Dal punto di vista storico è giusto dire che fu tardi, e questo ritardo ha avuto per la sinistra un costo altissimo, perché ha contribuito a bloccare il sistema; ma dal punto di vista umano, sentimentale, le radici del Pci nella storia nazionale erano così profonde che la fine è stata vissuta come un dramma anche da chi considerava la scelta giusta. Per fortuna Occhetto ruppe gli indugi, questo resta il suo merito storico indiscutibile».

Dopo un secolo di contrasti, qual è secondo lei la parola che oggi definisce la sinistra?

«L’idea socialista, creata dal lavoro, rimane l’espressione più forte. So che non contiene il tema della salvezza del pianeta, della liberazione femminile, ma è la parola della storia.

Poi tocca ormai ai più giovani trovare le parole nuove per una storia nuova. Con un sentimento antico che è un modo di essere, una dimensione dello spirito umano che costruisce il futuro nell’uguaglianza e nella solidarietà».

Tra le carte di Livorno ho trovato questa frase: "Il socialismo è ciò che il suo tempo lo fa". Può servire per un nuovo inizio?

«Non c’è dubbio, è perfetta. Purché si sappia che il tempo non sconfigge la distinzione fondamentale tra destra e sinistra, come ci ha spiegato Bobbio. E non cancella il problema delle disuguaglianze. Pensi che un Papa come Giovanni Paolo II dopo la fine del Pci mi disse: "Io ho sempre lottato contro i comunisti, ma adesso mi chiedo: ora chi difenderà i poveri"?».

La Repubblica, 20 gennaio 2021

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