domenica, dicembre 13, 2020

Intervista, Calcio. Roberto Baggio: "Il sorriso di Pablito era bello come l'amore materno"

Paolo Rossi e Roberto Baggio

DAL NOSTRO INVIATO
GIAMPAOLO VISETTI
Parla l'ex numero 10 azzurro, che con Paolo Rossi ha condiviso una grande amicizia oltre che l'amore per il Vicenza: "Festeggiando nell'82 decisi che avrei provato a diventare come lui"
VICENZA - "Avevo 11 anni, e la domenica mio papà Florindo mi caricava sulla canna della sua bici. Venivamo a Vicenza per vedere giocare un ragazzo sconosciuto che si chiamava Paolo Rossi. In inverno, dopo 12 km di pedalate, arrivavo allo stadio Menti congelato. Però guardando quell'attaccante gracile e coraggioso, già più forte di tre interventi alle ginocchia, ho cominciato a sognare anch'io e non ho ancora smesso. Se sono diventato calciatore lo devo a lui: non aveva un fisico perfetto, come me, però mi ha suggerito il valore prevalente del cuore e del cervello". Roberto Baggio esce dal Duomo di Vicenza e, al termine del funerale, va ad accarezzare la bara. Pochi istanti, quasi in imbarazzo, nascosto tra i campioni che con loro hanno condiviso la maglia della Nazionale. "Quando penso a chi mi ha insegnato a rialzarmi dai burroni della vita penso a Paolo. E anche lui mi ha confidato di aver pensato spesso a me. Il successo e le vittorie sono solo attimi di tregua dentro una resistenza umana cementata dalla capacità di non cedere al dolore".


Quando ha incontrato Rossi per la prima volta?
"Era l'autunno '76. Nemmeno noi tifosi del Lanerossi sapevamo chi fosse. Si diceva solo che in squadra fosse arrivata una giovane promessa frenata dagli infortuni. Certi particolari, legati alle difficoltà, mi hanno sempre incuriosito. Guardavo come si muoveva, aggrappato alla rete della porta: i suoi occhi seri e concentrati, quasi nascosti in fondo al volto pallido, me lo facevano sentire vicino".
Quale aspetto la colpì di più?
"Un dettaglio, non decisivo per uno sportivo: il sorriso. Segnava un gol e la sua faccia si trasformava. Guardava la folla in festa e rideva, come liberato dal peso di un macigno. Si capiva che era felice per noi, non fiero per la sua impresa. Era un attimo, ma vedevi che lui era un uomo buono: poi tornava l'altro Rossi attento, con lo sguardo incollato sul pallone".
Quando ha capito che poteva diventare un campione come lui?
"Non c'è un momento. Si impara ogni giorno a diventare forti: purtroppo mai a come rimanerlo. Ma noi, pur con oltre dieci anni di differenza, siamo stati di un'altra generazione. Penso che la mia sia l'ultima dei bambini autodidatti, che passavano infanzia e giovinezza a prendere a calci un pallone per la strada, solo per giocare e divertirsi".
Vuole dire che il calcio di oggi non permetterebbe di eccellere a giocatori speciali come voi?
"Dico che oggi i ragazzi, fin dall'inizio, hanno a disposizione molti più dati per allenarsi e molti più schemi per trovare il loro posto sul campo. Crescono programmati. Noi improvvisavamo, non sapevamo niente degli altri: forse il problema dei piedi è aver perso la libertà di giocare senza pensare".
Rossi&Baggio, due Palloni d'oro uniti da Vicenza: come lo spiega?
"Resta un mistero unico al mondo. Ne abbiamo riso spesso con Paolo: abbiamo concluso che il segreto è la familiarità, che qui viene prima della popolarità. Abbiamo potuto restare semplici, conservare gli amici, avere una famiglia, sentirci sempre a casa, tenere la giusta dimensione. Il Pallone d'oro si vince se non si smette il dialetto".
A quale ricordo è più legato?
"Luglio 1982. Avevo 15 anni e dopo la vittoria, con Pablito capocannoniere ed eroe di quel trionfo, sono venuto con gli amici a fare festa a Vicenza, in Corso Palladio. Penso che quella notte ho deciso che avrei provato a diventare come lui. Non mi seduceva la gloria, piuttosto l'amore speciale che la gente provava per lui".
Cosa aveva di speciale?
"Ricordava l'amore materno. Commuoveva. Credo che questo sia dipeso dalla sua sostanza, che è stata sempre l'umanità".
Cosa rappresenta la sua morte?
"La fine di quel nostro calcio. Il congedo fisico dall'amico che più mi ha ispirato. Non parlo dei trionfi pubblici, penso agli angoli bui della vita autentica. È l'umanità a fare la differenza".
Quando vi siete incontrati per l'ultima volta?
"Dopo tanto tempo siamo stati insieme in Cina. Ci sono stati lo spazio e il silenzio per parlare di noi, di quanto le nostre esperienze siano state simili, delle cicatrici che il successo incide sugli esseri umani. Parlammo anche della voglia di fare qualcosa insieme per un futuro più sostenibile, soprattutto nel calcio. Posso dire che lui, usando il termine sostenibilità, si riferiva a una cultura".
Le ha mai chiesto del suo rigore a Usa 1994?
"No, Paolo è stato un uomo molto intelligente. Sapeva che io, dopo 26 anni, quando vado a letto tante volte penso ancora a quel rigore. Fin da bambino sognavo di giocare una finale Italia-Brasile. La sorte me l'ha offerta, concedendomi però solo l'impercettibile confine tra la felicità e la disperazione. Paolo è stato un fratello: non c'era bisogno di parole per spiegare le ragioni di un evento atroce e decisivo".
Cosa gli avrebbe detto incontrandolo ancora?
"Ciao Paolo, e soprattutto grazie, come ogni volta".
Cosa resta oggi?
"Il suo sorriso, la forza della sua famiglia, la gioia che ha regalato a tutti. E una lezione: chiamare l'imminenza della morte una fase complicata della vita".

La Repubblica, 12 DICEMBRE 2020

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