domenica, luglio 05, 2020

Il caso. Lia, uccisa dal padre boss: "Non è vittima della mafia"


di SALVO PALAZZOLO 
«Carenza dei requisiti soggettivi, sia in capo alla vittima, sia in capo ai potenziali beneficiari». Così un dirigente del ministero dell’Interno ha liquidato, nel più burocratico degli stili, la storia di Lia Pipitone, la figlia ribelle del boss dell’Acquasanta uccisa nel 1983. Appena cinque pagine per dire che quella ragazza di 25 anni che sfidò il padre padrino non può essere considerata vittima della mafia in base alla legge. E che suo figlio e suo marito non possono avere alcun risarcimento. Povera Lia. Per trent’anni, lo Stato ha archiviato il caso come una rapina finita male. I boss avevano architettato una grande messinscena all’interno di una sanitaria di via Papa Sergio.

«La ragazza doveva essere punita per una sua relazione extraconiugale — ha spiegato il pentito Francesco Di Carlo — il vertice della famiglia convocò il padre per comunicargli che il problema sarebbe stato risolto eliminando la figlia. E il padre acconsentì» . Una messinscena che non insospettì la polizia. E oggi viene da pensare male: le ultime indagini della procura generale sull’omicidio dell’agente Agostino raccontano che il clan dell’Acquasanta teneva rapporti con ambienti deviati delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, il clan dell’Acquasanta custodiva la base operativa da dove partivano i sicari di Riina per gli omicidi eccellenti di Palermo. In quel quartiere Lia voleva vivere la sua vita. Non era un’attivista politica, non faceva cortei e non urlava slogan. Lia era una ragazza che a 18 anni era fuggita con il fidanzatino conosciuto al liceo artistico, il fidanzatino poi diventato marito dopo che i boss di mezza Sicilia si erano messi a cercarli. Lia amava indossare i jeans invece delle gonne sotto il ginocchio. Lia amava la musica, le feste in strada e le sigarette con gli amici. Troppo rumore in quel quartiere che doveva essere una zona franca. E troppo scandalo per quell’amico del cuore che lei adorava, Simone Di Trapani si chiamava. Un tam tam terribile trasformò quell’amico in un amante. Dopo aver ucciso Lia, i boss dell’Acquasanta corsero a casa di Simone, fingendosi operai del gas, e lo obbligarono a scrivere una lettera in cui diceva che si suicidava per amore di Lia. Poi, lo scaraventarono giù dal quarto piano. Un’altra colossale messinscena, perché la vita normale, la voglia di libertà, di quei due ragazzi stava rischiando di mettere in crisi la famiglia più riservata e più ortodossa di Cosa nostra. «La figlia voleva peraltro separarsi dal marito, era diventata una questione d’onore — ha detto ancora Di Carlo — Nino Pipitone doveva recuperare il prestigio perso». Poco prima dell’omicidio, il padre parlò un’ultima volta con la ragazza. Gli disse chiaramente: «Meglio una figlia morta che separata» . E Lia, che negli ultimi tempi aveva ripetuto «Voglio andare via con il piccolo Alessio», sussurrò al marito: «Promettimi che ti occuperai sempre di nostro figlio ». Lia aveva capito il destino a cui andava incontro. Ma non si piegò mai alle imposizioni del padre.
Sarebbe bastato leggere l’ultima sentenza emessa dai giudici di Palermo, quella che ha condannato i boss Nino Madonia e Vincenzo Galatolo, per rendere finalmente onore a Lia. Ma nelle cinque pagine che liquidano la storia di questa giovane oggi diventata un simbolo per tanti ragazzi dei quartieri non si fa neanche cenno alla sentenza. Si arriva a dire che il figlio Alessio (che ha fatto riaprire il caso) e il marito di Lia, Gero Cordaro, hanno fatto domanda «fuori termine» . Si dice pure che il marito di Lia non avrebbe rotto con il suocero, perché nel primo processo contro Pipitone (poi assolto) non raccontò tutto quello che sapeva. Ma quella volta — racconta la sentenza — il boss aveva convocato il genero prima dell’udienza, minacciandolo.
«Ora questa decisione condanna Lia due volte» , dicono gli avvocati della famiglia, Paolo Giangravè, Marcello Assante e Giuliana Vitello, che si sono opposti al provvedimento del Viminale. E all’Acquasanta, il nome di questa ragazza che sognava la libertà è ancora scomodo: non c’è neanche una lapide a ricordare il suo sacrificio.
La Repubblica Palermo, 5 luglio 2020

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