mercoledì, giugno 24, 2020

L’analisi. Riti arcaici e grande finanza: il segreto della mafia bifronte


Umberto Santino
UMBERTO SANTINO

Non finiamo mai di sorprenderci, eppure è un copione che si ripete e spesso personaggi e attori sono gli stessi da molto tempo. Chi parla e scrive di mafia pare che guardi con un occhio solo: ormai c’è la mafia finanziaria, mercatista, manageriale, ed è morta e sepolta quella dei riti arcaici; l’orizzonte è planetario e la mafia di borgata o non c’è più o è soltanto un arredo folklorico dei quartieri periferici. E invece ci sono insieme la mafia finanziaria dei grandi traffici internazionali e quella tradizionale che bada a tenere sotto controllo il rione e il caseggiato. Il management e la governance criminale vanno a braccetto con la punciuta, con il bacio in bocca per consacrare un nuovo capo o reggente. Sciascia parlava di una mafia dialettale sostituita da una mafia in lingua.
E invece convivono il dialetto e la lingua. Un piede dentro la tradizione e l’altro nella modernità: è l’identikit dei fenomeni di durata, che persistono nel tempo, proprio perché sono un Giano bifronte.

Qualche anno fa nel villino in cui soggiornavano i Lo Piccolo, padre e figlio, è stato trovato un foglietto con la formula di giuramento e una sorta di decalogo di Cosa nostra. Si parla di comparaggi, si dice di non frequentare taverne e circoli, di rispettare la moglie e non guardare le mogli degli "amici nostri"e ci sono altri dettami di un galateo ancestrale e casereccio. Una delusione per chi parla di "sistemi criminali", di crimine "transnazionale", di piovre planetarie. La carta d’identità di Cosa nostra è un ibrido di villereccio e postmoderno. Sembra una contraddizione, una convivenza difficile se non impossibile, e invece è il segreto svelato di una lunga sopravvivenza.

Tano Badalamenti è stato condannato a 45 anni di carcere come trafficante intercontinentale di eroina ma alla radice della sua attività c’era la signoria territoriale su un lembo di Sicilia in cui erano posizionati i laboratori di eroina ed era sotto controllo l’aeroporto.

E questo vale pure per il rapporto con lo Stato e le istituzioni. La mafia non avrà studiato Weber e le sue riflessioni sul gruppo sociale, il gruppo di potere, il gruppo politico, lo Stato che pretende e riesce a ottenere il monopolio della forza, ma ha un suo ordinamento, le sue norme, le applica e si fa giustizia con le sue mani, non riconoscendo il monopolio statale della violenza, e poi partecipa alle elezioni, contribuisce alla formazione delle rappresentanze, condiziona politica e pubblica amministrazione, fa di tutto per accaparrarsi denaro pubblico con appalti e subappalti, investe nell’economia legale i capitali illegali, che a quanto pare non conoscono crisi e flessioni. Diceva Paolo Borsellino: «Lo Stato e la mafia operano sullo stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo». E le guerre ci sono state, ci sono state pure delle battaglie vinte come il maxiprocesso - a cui però ha fatto seguito lo smantellamento del pool antimafia, una scelta scellerata - ma troppo spesso a prevalere sono stati gli accordi. È in corso il processo d’appello per la trattativa Stato-mafia, ma la trattativa è stata un episodio o una storia, segnata da una sovranità con-divisa? Per arrestare Riina era inevitabile, come sembra, la collaborazione di Provenzano? E per arrestare Matteo Messina Denaro ci vorrà qualcuno che dirà come stanarlo? Ogni giorno si legge: "il cerchio si sta chiudendo"; chi c’era ricorda che lo si diceva anche ai tempi del bandito Giuliano, poi sappiamo cosa si è dovuto fare per chiudere quel cerchio.

Anche quello che è accaduto e accade allo Zen mostra una mafia dal duplice volto. Che manda un messaggio non difficile da decrittare: se volete che si ponga fine al rosario degli assalti e dei danneggiamenti, gli unici che possiamo darvi la garanzia della sicurezza siamo noi. Contrariamente a quello che teorizzano gli accademici sulla mafia come «industria della protezione privata», non c’è un rischio insito nel contesto sociale. È la mafia che produce il rischio e vorrebbe imporsi come agenzia assicurativa.

Se non si è capaci di reagire a questa sfida, con la decisione necessaria, sarà una sconfitta per le istituzioni ma pure per la società civile e in particolare per l’associazionismo antimafia.

La Repubblica Palermo, 24 giugno 2020

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