sabato, giugno 20, 2020

Fabrizio Barca: "Oggi la sinistra è più moderata dei liberali: mancano i valori e una classe dirigente capace"

Fabrizio Barca

Non fatevi illusioni: se sperate di leggere un’intervista in cui Fabrizio Barca parla in politichese di minibot e riforme, strigliando o motivando il governo, siete fuori strada. L’economista, già presidente del Comitato per le politiche territoriali dell’Ocse, imprestato alla politica ai tempi di Mario Monti per risolvere pasticciacci brutti e chiamato in aiuto dal Partito democratico per risolvere quelli forse ancora più brutti del Pd a Roma, per ora con la politica parlamentare e governativa sembra non voler avere a che fare.
Ma è intensamente politica invece tutta la sua attività pubblica, nel senso più nobile del termine: da cofondatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, da due anni è impegnato attivamente per studiare e proporre soluzioni concrete che restituiscano un senso ai concetti di uguaglianza, pari opportunità e dignità del lavoro garantiti dalla Costituzione.
Eppure calpestati, ancor più che dalla tanto raccontata crisi, dalla mancanza di volontà e di capacità per affrontarla: in altre parole, dall’inadeguatezza della riflessione sul capitalismo, sul neoliberismo e sulle politiche socio-economiche passivamente accettate come inconfutabili, a dispetto di tensioni sempre più evidenti e di un’economia sempre più in affanno. Non c’è da sorprendersi, infatti, se le due cose sono sempre più collegate, come spiega Barca in questa lunga chiacchierata.
Perché ridurre le disuguaglianze è necessario, anche al capitalismo?

Per due ragioni, una difensiva e una offensiva. Quella difensiva è che, essendo il capitalismo costruito sulla fiducia e sulla mitologia del benessere, quando si raggiungono certi livelli di disuguaglianze e il malessere è così diffuso, l’idea stessa del capitalismo non può reggere.
Quella offensiva?
Il capitalismo funziona e dà il meglio di sé, cioè produce innovazione, quando è stimolato dalla riduzione delle disuguaglianze. Come diceva Paolo Sylos Labini, quando non ti è possibile sfruttare oltre il lavoro, allora i neuroni cominciano a funzionare. In questa fase storica non c’è stata sufficiente pressione: affrontare le disuguaglianze significa cercare profitto nell’innovazione, meno nello sfruttamento.
Meno?
Be’, sì, meno: il capitalismo è sfruttamento per definizione, ma è questione di bilanciamenti.
 Nel determinare gli squilibri ha avuto un ruolo importante anche l’accelerazione tecnologica degli ultimi decenni. Ma non si può arrestare quest’avanzata?
Gli squilibri non sono scritti nella tecnologia, anzi. La tecnologia dell’informazione ha un potenziale diffusivo della conoscenza e se ha concorso a determinare una fortissima concentrazione di potere, – parliamo delle “nuove” Sette Sorelle digitali come Facebook, Amazon, Google & Co. – è perché sono state fatte scelte politiche sbagliate. Non abbiamo governato internet e abbiamo di fatto lasciato che diventasse proprietà delle corporation. Non abbiamo fatto politiche di regolazione concorrenziale delle corporation stesse, tollerando con Zuckerberg quello che non tolleravamo nel Novecento con JP Morgan. Non abbiamo utilizzato il potere pubblico di contrastare il monopolio facendo imprese pubbliche, che storicamente sono uno strumento di concorrenza delle imprese private. E, da ultimo, abbiamo avallato l’esasperazione dei diritti di proprietà intellettuale, consentendo che si sbilanciasse l’equilibrio delicato tra la proprietà privata della conoscenza e la possibilità di renderla disponibile a tutti.
La diagnosa è impietosa, ma precisa.
E come tutte le diagnosi ben fatte dice anche cosa fare per cambiare le cose.
 Cosa?
Come Forum disuguaglianze proponiamo il cosiddetto “modello Ginevra”.  LEuropa deve costruire tre grandi hub tecnologici partendo dalle proprie infrastrutture di ricerca per spingersi sul mercato. Vale per il digitale ma anche per la farmaceutica: dobbiamo evitare che la ricerca sul Dna venga utilizzata per avere persone che con 1 milione di euro si possono permettere di vivere fino a 130 anni mentre gli altri crepano a 40. Dobbiamo costruire piattaforme collettive – e questo è un esercizio che possono fare le città – per il governo dei dati, come stanno facendo Barcellona, Amsterdam, Milano. Si può per esempio immaginare di organizzare servizi di trasporto pubblico in cui noi immettiamo i nostri dati, ma ne controlliamo l’uso. Dobbiamo tornare a regolare la concorrenza, come si propone in questo momento negli Stati Uniti, e dobbiamo invertire quella assurda e paradossale situazione attuale per cui in Italia si valuta la capacità dell’università sul numero dei brevetti che sforna. Capiamoci: i brevetti vanno bene, ma è strano che vengano premiate le università pagate dalla collettività non in base alla conoscenza che mettono a disposizione del pubblico bensì in base a quella che rendono privata.
Sono soluzioni che richiedono una volontà collettiva, che in questi anni si è vista poco. Inoltre sui nuovi colossi dell’economia giocano un ruolo importante gli Stati Uniti, che finora non hanno fatto molto.
Alcune delle cose che ho detto sono giocabili nazionalmente, l’hub tecnologico ha una dimensione europea, la pressione su Google e Facebook ha dimensione internazionale mentre gli interventi sulle piattaforme collettive sono locali.  C’è una gamma di strumenti che va dalla città fino ad arrivare all’internazionale e ogni livello ha spazi di manovra: chi dice il contrario semplicemente non vuol cambiare. È importante capirlo, perché uno degli alibi passati anche dentro al centrosinistra e alle sinistre negli ultimi 30 anni è che non ci fosse granché da fare perché l’unico livello era internazionale, e troppo potente per le loro forze. Non solo è una motivazione falsa, ma spiega la moderazione suicida di molti partiti di sinistra in giro per l’Europa.
Ecco, perché la sinistra ha così paura di parlare di riforma del capitalismo, o anche solo di compiere le azioni minime necessarie a fermare i monopoli?
Per ragioni che la rendono oggi più moderata dei liberali. Certo, non vale per tutti: voglio ricordare che il gruppo socialdemocratico europeo ha prodotto un documento che si chiama “Uguaglianza Sostenibile” – ho avuto l’onore insieme a Enrico Giovannini di far parte della commissione europea che lo ha prodotto – ed è un testo radicale. Ma molte parti hanno scelto di non farlo proprio: per esempio non è diventata la bandiera del Partito Democratico in Italia.
Appunto. Perché la sinistra, anche in Italia, è così “moderata”, che è un modo gentile per dire una sinistra che non fa la sinistra?
Le ragioni sono due. La prima è culturale: 30 anni fa, non ieri, molti partiti socialdemocratici hanno comprato l’ideologia del “Non c’è alternativa: il capitalismo è uno solo, dobbiamo lavorare ai margini per renderlo un po’ meno cattivo”. E se si pensa che non ci siano più i margini per lavorare sui meccanismi di formazione della ricchezza, non lo faccio. E non per interesse, ma perché mancano i valori.
La seconda ragione ha a che vedere con le classi dirigenti: quelle venute su in questi 30 anni sono state selezionate su questo credo, senza più la convinzione di un cambiamento che toccasse i sentimenti delle persone. La maggior parte dei soggetti di questi partiti non è capace di avere una visione. Trent’anni fa, insomma, c’era un problema di credo; oggi il problema non è solo il credo ma anche la capacità della classe dirigente.
Significa che la sinistra è spacciata, e con lei le speranze di un capitalismo alternativo e migliore?
Credo che ci siano focolai e fermenti di cambiamento straordinario. Il primo e più evidente sta nelle organizzazioni di cittadinanza. Non è un caso che io personalmente abbia trovato tanta corrispondenza all’interno del Forum Disuguaglianze nel mondo liberale ma anche in quello cattolico, sotto la spinta importante, dura e difficile dell’attuale Papa, che si è trovato con un peso enorme sulle spalle e la cui azione sta liberando energie nel mondo cattolico.
La seconda speranza è che dentro ai partiti ci sono molti giovani il cui pensiero non corrisponde necessariamente alle bandiere del partito stesso; d’altronde spesso i partiti sono diventati partiti non valoriali, della mitologia del centro, del “bisogna governare”, non stare alle visioni. In parlamento ci sono figure giovani molto interessanti che possono concorrere in modo strano al rovesciamento.
Il terzo fattore da non trascurare – e non mi si fraintenda – è la stessa rabbia, il risentimento che conducono al voto: lì dentro c’è una energia straordinaria.
Raccogliere lo scontento e trasformarlo in carica positiva per reagire.
Oggi si apre una opportunità interessante, che è l’alleanza con pezzi significativi del business, di quella comunità imprenditoriale che non vuole un mondo autoritario e che ha tardato a reagire. Ha incassato i benefici di un brutto mondo e adesso si accorge della degenerazione. D’altronde è stato l’Economist, cioè un giornale liberale, a scrivere cose radicali sulla necessità di cambiare i mercati.
La comunità imprenditoriale ha davvero capito che bisogna cambiare, al di là delle iniziative quali la Corporate social responsability, che qualcuno ritiene una foglia di fico?
C’è un pezzo del mondo del business, ben rappresentato appunto dall’Economist, che dice apertamente che così non si può reggere. Non fa uscite moderate, sta dicendo che è tempo di accettare cambiamenti significativi. Negli Stati Uniti, e nel mondo anglosassone in generale, c’è più fermento, ma c’è qualcosa anche a casa nostra: non siamo mai stati all’avanguardia, eppure oggi nelle organizzazione imprenditoriali c’è un’attenzione che prima non c’era.
Un esempio concreto?
Il fatto che i tre sindacati – Cgil, Cisl e Uil – e Confindustria siano d’accordo sulla necessità di una partecipazione strategica attiva dei lavoratori nelle aziende: quello è stato un segnale importante, un punto di arrivo anche per gli imprenditori. Bisogna ridare al lavoro una parola significativa nelle scelte strategiche imprenditoriali.
Abbondano leggi fatte in nome del lavoro, ma le scelte di fondo ancora mancano.
Come Forum Disuguaglianze su questo punto lavoriamo proponendo i Consigli del lavoro e della cittadinanza, uno strumento che consenta di rompere il diaframma tra lavoratori che subiscono le conseguenze della necessità di impiego e i residenti della stessa area. Pensiamo a Taranto: se 12 anni fa avessimo avuto un consiglio di lavoro e cittadinanza oggi Taranto sarebbe una città con tecnologie che permettono agli abitanti lavori sicuri.
E le aziende più piccole?
L’Italia è fatta più di piccole e medie imprese che di quelle grandi. Abbiamo dato le Pmi per morte cento volte e invece è anche grazie a loro che l’Italia ha continuato a salvarsi. Ma di recente si sono divaricate: da una parte ci sono quelle che esportano, pagano buoni salari e fanno profitti, e dall’altra quelle che sopravvivono a stento, pagano bassi salari e non esportano. Riproducono esattamente la fotografia di due Italie domani possibili: una ha bisogno di protezione e tutela, e può anche accettare di litigare con l’Europa. Gli altri invece vogliono l’Europa, e vogliono fare un salto.
Se ci fosse davvero la volontà di intervenire su questi molti fronti, quanto ci vorrebbe per gettare le basi di un cambiamento reale?
Poco: un arco di tempo di tre, cinque anni. Se nel tempo di un’altra brutta legislatura, che potrebbe essere già incombente su di noi, le forze più avanzate della produzione, del mondo del lavoro e della cittadinanza attiva costruissero nelle città le piattaforme aperte, collettive, tecnologiche e trasparenti di cui abbiamo parlato, per aumentare la concorrenza e migliorare il trasporto pubblico locale; se nei territori si avviassero i consigli di lavoro e cittadinanza, che non hanno bisogno di una legge per essere istituiti, grazie ai quale in 12 mesi si potrebbe capire come organizzare in modo diverso il dialogo tra imprenditori, cittadini e lavoratori; se in un altro pezzetto di Paese si provasse a sperimentare una strategia sulle periferie, be’, l’insieme di queste cose, in un Paese in cui non c’è nulla, farebbe una differenza e costruirebbe un’alternativa. Che diventerebbe poi anche un’alternativa elettorale.
C’è un grosso se, parlando di forze di produzione: il “governismo” di Confindustria.
Confindustria, Coldiretti e le organizzazioni devono uscire dal tavolo “verde” del governo, capendo che la partita non si gioca solo lì ma anche in un contesto più ampio. È chiaro che ci siano degli interessi di lobby che le aziende non possono trascurare, e va bene. Ma è ovvio che il tavolo vero è un altro, e la partita si gioca nei territori.
Cosa succede invece nel peggiore degli scenari, se il cambiamento che ha ipotizzato non dovesse realizzarsi? Se non ci fosse la sensibilità per intervenire a cambiare gli scenari del capitalismo?
Se a livello territoriale non si muovesse nulla, se i giovani in cui ho fiducia, sparpagliati nei partiti, non si dessero una mossa nelle commissioni parlamentari e se a livello europeo dominasse l’illusione che sia andata abbastanza bene da poter procedere col moderatismo, ci troveremmo ad avere una stagione interlocutoria. Dopo la quale gli antisistema diventerebbero sempre più forti, con una possibile deriva autoritaria alla Orban. Sicuramente in Italia, ma forse anche in altri Paesi europei.
Con un’economia in che condizioni?
L’economia in difficoltà già ce la abbiamo: ristagna. Ma nel caso peggiore fatto sopra l’unica soluzione per le imprese per restare sul mercato sarebbe pagare bassi salari. Vincerebbero le imprese protezionistiche che campano sulla rendita e perderebbero le altre. Dunque ulteriore rabbia sociale, con incidenti e domande di autoritarismo e di sicurezza. E, quindi, in risposta, regimi liberticidi. Una spirale con meno libertà, meno crescita e più disuguaglianza. In cui vince il peggio del nostro Paese, e non il meglio.
businessinsider, 12/6/2019

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